Una serie di treni dai nomi esotici ha accompagnato lo scrittore attraverso Messico, Guatemala, Colombia, Ecuador, gli altopiani andini del Perù e la pampa argentina; panorami meravigliosi e, soprattutto, popoli diversi, distanti, eccentrici e a volte pericolosi e incomprensibili se approcciati secondo schemi occidentali e poco flessibili. Insieme a loro, tra di loro, turisti e viaggiatori persi tra un mare di volti.
E'un libro di viaggio che contiene un altro libro di viaggio. Il primo è quello attraverso un'America Latina sempre " sospesa su un abisso di incertezza ", l'altro è quello dell'amante della letteratura che viaggia nei suoi libri ....mentre viaggia nello spazio ispanoamericano. L'uno e l'altro sono piacevolissimi. Del resto: " hay dos formas de viajar: ller mucho ....." L'occhio di Theroux è sempre oggettivo, asciutto e mai indulgente. Anche se sono passati molti anni da quel viaggio, i paesi attraversati sembrano gli stessi, poco è cambiato: qualche tiranno è stato abbattutto, molte elezioni si sono tenute, ma resta la polvere, il sudicio e ...l'eterna incertezza, (quella che provano gli abitanti di Macondo quando il circo abbandona il paese).
Esquel è una cittadina dell'Argentina situata nella parte nord-occidentale della provincia del Provincia di Chubut, in Patagonia. È il capoluogo del dipartimento Futaleufú. Il nome della città deriva da un termine Mapuche che significa "spina" e si riferisce alle caratteristiche della flora locale, che comprende diversi arbusti spinosi, in particolare il 'calafate' (Berberis buxifolia).
La fondazione della città risale all'arrivo di immigrati gallesi nel Chubut, nel 1865. L'insediamento fu creato il 25 febbraio del 1906, come espansione della Colonia 16 de Octubre, nota attualmente come Trevelin.
La città, centro principale della zona, è situata sulle rive del torrente Esquel ed è circondata dai monti La Zeta, La Cruz, Cerro 21 e La Hoya. Quest'ultima è una nota stazione sciistica, con neve di buona qualità fino a primavera inoltrata. Il Parco Nazionale Los Alerces si trova 300 km a nord della città.
Un'altra importante attrazione turistica è il treno a scartamento ridotto (75 cm fra una rotaia e l'altra), chiamato dai locali La Trochita, e in inglese "The Old Patagonian Express", dall'omonimo libro di Paul Theroux. Si tratta dell'unico treno a scartamento ridotto ancora in funzione su lunghe distanze e la ferrovia più meridionale del mondo. Fino al 1993, il treno raggiungeva Ingeniero Jacobacci, nella provincia di Río Negro, da cui partivano altri treni per Viedma, e da lì per Buenos Aires: tale sistema costituiva la ferrovia General Roca.
Otto non ebbe bisogno di svegliarmi, ci pensò la polvere. Riempì il mio scompartimento e mentre il Lagos del Sur correva attraverso l'altopiano dove piove raramente (a che servivano qui le scarpe impermeabili?) la polvere veniva sollevata, e la nostra velocità la faceva entrare con forza attraverso le finestre che sbatacchiavano e le porte dondolanti. Mi svegliai sentendomi soffocare, e mi feci una maschera con il lenzuolo per poter respirare. Quando aprii la porta, una nuvola di polvere mi volò addosso. Non era una normale tempesta di sabbia, pareva più un disastro nel pozzo di una miniera: il rumore del treno, l'oscurità, la poi vere, il freddo. Non c'era pericolo che perdessi la stazione di Ingenero Jacobacci per via del sonno. Appena dopo mezzanotte ero compici il mente sveglio. Digrignai i denti, e granelli di sabbia scricchiolarono Ini
i molari.
Misi a posto la valigia, riempii le tasche con le mele che avevo coni-prato a Carmen de Patagones e andai all'entrata del vagone ad aspri ture il segnale di Otto. Stetti lì seduto. La polvere vorticava dal corridoio, avvolgeva in folate le lampadine e copriva gli specchi e le fine-siri.1 con pelo di criceto. Tenni un fazzoletto sulla faccia. Lavarsi non aveva spfl« -, so; non c'era sapone, e l'acqua era gelata.
Otto comparve qualche tempo dopo. Si era messo l'unilomic di ferroviere sul pigiama, e aveva un'aria disfatta. Battè sul suo orologio polso e disse con voce malferma: «Jacobacci, venti minuti».
Volevo tornare a letto. L'ultima cosa che avrei desiderato itii ili sciare la sicurezza del treno per l'incertezza esterna. Nel treno cYru pi vere, ma era un nido; fuori c'era il vuoto, e niente era sicuro. Tulli i|llf li che avevo incontrato mi avevano avvertito di non prendere il It'f per Esquel, ma che cosa potevo fare? Dovevo andare a Esquel prima di tornare a casa.
Pensavo di essere l'unico a scendere a Ingeniero Jacobaci sbagliavo. C'erano due vecchi che portavano grandi fusti di petrolio come parte del bagaglio, una donna con un bambino al collo e un altro che le andava dietro passo passo, una coppia con una valigia legata con spago e cinture, e altri che erano ombre. La stazione era piccola, sulla banchina c'era appena lo spazio per tenerci. Le persone che avevano viaggiato in seconda classe, ed erano state svegliate dallo scossone della fermata e dalle luci della stazione, avevano i volti affaticati ed esangui. Il treno sibilò per mezz'ora davanti alla banchina, poi si allontanò molto lentamente. Si lasciò dietro polvere, luce fioca e silenzio. Sembrò che si portasse via il mondo.
Quel treno espresso - come sognavo di esserci ancora dentro! -aveva confuso le distanze e le altitudini. I dati furono forniti a Jacobacci: eravamo a più di mille miglia da Buenos Aires, e da Carmen de Patagones, che era a livello del mare, eravamo saliti per più di mille metri, su un altopiano che si riabbassava prima dello stretto di Magellano. In questo vento, a quest'altezza e a quest'ora - erano le due del mattino -a Jacobacci faceva molto freddo. Nessuno si ferma a Jacobacci, mi avevano detto. Avevo la prova del contrario. C'erano passeggeri che erano scesi. Pensai che avrebbero aspettato il treno per Esquel, come me. Mi guardai attorno, se n'erano andati.
Dove? In quel vento, quel buio, quelle capanne nel deserto. Non prendevano un altro treno, vivevano a Jacobacci. Più avanti lo considerai un pensiero ingenuo, ma al momento riflettei su com'era strano che delle persone — emigranti e figli di emigranti - avessero scelto di vivere lì, con tutti i posti che c'erano al mondo. Non c'erano né acqua né ombra, le strade erano terribili, e c'era poco lavoro pagato. Per quanto fossero tenaci, non potevano avere la resistenza e l'ingegnosità degli indios che, comunque, non avevano mai popolato questa parte della Patagonia. A nord est c'erano le fertili praterie di Bahia Bianca, a ovest i laghi - il paradiso tirolese di Bariloche. Per via di qualche mucca o pecora, e di una caparbietà sconcertante, c'era gente che viveva in questo villaggio minuscolo della Patagonia in cui la linea ferroviaria si divideva, un raccordo nel deserto. Ma era un pensiero ingenuo. Ci sono tanti che hanno bisogno di spazio assai più che di erba o alberi, e per loro le città e le foreste sono solo confusione. Qui puoi essere te stesso, mi disse un gallese in Patagonia. Be', su quello non c'erano dubbi.
Lasciai la valigia sulla banchina e mi misi a passeggiare fumando la pipa. Il primo treno per Buenos Aires sarebbe passato fra tre giorni. Un manifesto dell'Unesco inchiodato al muro della stazione mi parlava della malnutrizione in America latina. Come in Guatemala, un cartello diceva Prendi il treno, costa meno! E un altro II treno ti è amico - diventa amico del treno! Da un palo della banchina pendeva una campana di bronzo, come una vecchia campanella delle scuole. Il capostazione l'aveva suonata subito prima che il Lagos del Sur ripartisse, ma nessuno ci era salito.
Il treno era andato in una dirczione, i passeggeri di Jacobacci in un'altra. Così ero rimasto solo, come Ismaele: «E solo io sono scampato, per poterlo raccontare». Era un posto freddo e deprimente, ma dovevo stare lì quattro ore ad aspettare il minuscolo treno a vapore per Esquel, non avevo altra scelta. Pensavo anche: È perfetto. Se un aspetto del viaggio era l'abbandonarsi al brivido, proprio dell'esploratore, di trovarsi da solo, di avere lasciato indietro tutti gli altri, dopo quindici mila o ventimila miglia, e di essersi imbarcato in una missione solitària alla scoperta di un luogo remoto, allora avevo realizzato il sogno del viaggiatore. Il treno va mille miglia oltre Buenos Aires, si ferma in me/ zo al deserto e tu scendi. Ti guardi intorno, sei solo. E come arrivare. I1, già come una scoperta, ha la stessa singolarità. Il ciclo era pieno di stcl le in costellazioni non familiari, perfino la luna era storta, come una ver sione antipode di quella a cui ero abituato. Era tutto nuovo. Nei ini gliori libri di viaggi, la parola solo è implicita in ogni pagina emo/.io nante, è fine e ineliminabile come una filigrana. Questa conce/ioni1, l'i dea di poter farne il resoconto - perché ero partito proprio con Pillai ili scrivere un libro, no? - compensava i disagi. Solo, solo; era comi: la prova del mio successo. Avevo dovuto viaggiare molto lontano per urrivnrc a questa condizione solitària.
Una voce, un gracidio di rana, chiese: «Tè?»
Era il capostazione. Indossava un cappotto invernale, unii si'iurpl, e scarponi rotti, e sul bavero del cappotto aveva il simbolo d'ur^entO delle ferrovie General Roca. Nel suo ufficio, la minuscola si uhi a hiin Idi» niva un po' di calore, e un piccolo bollitore da tè ammacoito si soioM» \ va su una griglia di fil di ferro improvvisata.
Pensai che fosse meglio spiegare la mia presenza: «Aspetto il treno per Esquel».
«Esquel è molto bella.»
II suo era il punto di vista da Jacobacci. Era il primo che sentivo lodare Esquel, ma avendo visto un po' di Jacobacci capivo il perché. In Massachusetts, gli abitanti di Belchertown hanno sempre una buona parola per Holyoke. Aveva riempito una piccola tazza di foglie di mate (che vengono da un albero sempre verde, l'Ilex) e ci infilò una cannuccia d'argento. La tazza era d'osso, il corno di una mucca con una rozza scritta ornamentale.
Disse: «A Esquel ci sono tante cose da fare. Ci sono alberghi, ristoranti, grandi fattorie. A un'ottantina di miglia dalla città troverà un bellissimo parco, con alberi, erba, tutto quanto. Eh sì, Esquel è un bel posto».
Versò acqua bollente sulle foglie e mi passò la tazza.
«Le piace?»
«Molto buono. Mi piace il mate.» Ci aveva messo troppo zucchero, e il sapore era disgustoso.
«Intendo dire la tazza.»
La guardai.
«Un corno di mucca», disse. «E del Paraguay.»
Lo dicevano anche i graffi incisi sopra. Dissi che l'ammiravo.
«È stato in Paraguay?»
Alzò le spalle. «C'è stata mia moglie. Suo fratello abita là. C'è andata l'anno scorso.» Fece un largo sorriso. «In aereo.»
Annuiva e preparava un altra tazza di tè. Gli feci domande su Jacobacci, sul treno, sulla Patagonia. Le sue risposte non erano interessanti. Voleva parlare di soldi. Quanto era costata la mia valigia? Quanto veniva una casa negli Stati Uniti? Quanto guadagnavo? Quanto costava un'automobile nuova? A titolo d'informazione gli dissi anche quanto costava una bistecca da mezzo chilo in Massachusetts, e lui rimase senza fiato. Smise di lamentarsi e prese a vantarsi del prezzo della lombata di manzo.
Magari avesse detto Vuoi sentire una storia strana? Era già vecchio abbastanza da poter conoscere storie interessanti. Ma era mezzo addormentato, faceva freddo, ed erano quasi le tre del mattino. Così lo lasciai solo e uscii. Camminai lungo i binari, allontanandomi dalle luci della stazione. Il vento raspava fra i rovi come sabbia su un piano inclinato. L'aria odorava di polvere. Sopra i cespugli, la luna risplendeva di un colore blu sulla monotonia gibbosa della Patagonia.
Sentii un ringhio. Trenta metri più in là c'era una capanna bassa e nera, e probabilmente i miei passi sulla ghiaia dei binari avevano svegliato il cane. Cominciò ad abbaiare. Il suo abbaiare svegliò un cane più vicino, che prese a latrare in modo forte e acuto. Non sono mai riuscito a superare la paura di essere morso da un cane, che risale alla mia infanzia; un cane grande che abbaia mi pietrifica. Nei miei incubi peggiori ci sono cani lupo irlandesi con le fauci schiumanti. Di solito i cani aggressivi appartengono ad anziani, a donne attraenti, a omjni brutti, e a coppie senza figli. Non le fa niente, dicono queste persone, godendo del mio terrore, e io vorrei rispondere, Può darsi, ma forse gli farò qualcosa io. In Sud America, si sa, molti cani hanno la rabbia. Non sono i cani randagi rannicchiati per la paura che ho visto a Ceylon e in Birmania, ma creature più floride, con zanne acuminate, simili a lupi, che vengono incitate dai nativi. Nei villaggi indi del Perù e della Bolivia c'erano sempre cani, che sembravano molto più vigili degli indios stessi. Quegli stupidi animali si mettevano a rincorrere il treno. Avevo paura di prendere la rabbia. «La cura è peggiore della malattia.» Non era una paura irrazionale, avevo letto avvisi sul pericolo costituito dai cani impazziti.
Un cane, più piccolo di quel che il suo verso faceva pensare - era grande più o meno come una borsa - s'infilò fra i rovi e corse verso i bi nari. Si acquattava e ringhiava, chiamando l'altro. Mi misi le mani in la sca e cominciai a camminare all'indietro. Diedi un'occhiata alle mie spalle, verso la stazione illuminata - ero stato stupido ad allontanarmi così. Ora i cani erano tutti e due sui binari e si avvicinavano, ma con ci i cospezione; si spingevano in avanti, abbaiavano forte e si tenevano bas si. Guardai se c'era un bastone per picchiarli (se li avessi colpiti sa ivi ) bero stati presi da una furia omicida o sarebbero scappati via?), ma quc sto era il deserto. A parte qualche pioppo alla stazione, non c'era un al bero per centinaia di miglia. Avrei voluto correre, ma sapevo che lo avrebbero inteso come segno di codardia, e si sarebbero avventati su di me. Continuai a camminare all'indietro, tenendoli d'occhio e teme-min li troppo per poterli odiare. Quando fui più vicino alla stazione, i piop pi mi diedero speranza - perlomeno potevo arrampicarmici su, o mrl termi in salvo. C'era anche la luce, e i cani ne sembravano preoccupili i, Si tennero all'ombra, saettando fra i vagoni, e quando videro clic ito hi salvo sulla banchina presero a rincorrersi a vicenda. Erano piccoli, sin pidi, patetici e zoppi; dalla mia posizione sicura li odiai.
Il capostazione aveva sentito il trambusto. Disse: «Non vada troppo lontano. Ci sono molti cani in giro».
Trascinai la valigia verso una panchina di legno. Avevo eliminato tutti i libri meno Boswell, che ora cominciai a rileggere. Avevo le mani fredde. Misi via il libro, indossai un altro maglione, e mi sdraiai sulla panca con le mani in tasca, sotto il cartello 17 treno ti è amico. Fissai la lampadina e ringraziai il ciclo per non essere stato morso da un cane rabbioso.
Che fosse razionale o no, ne avevo paura. Ci sono parecchie soddisfazioni a viaggiare da soli, ma le paure sono altrettante. La peggiore è la più costante: è la paura di morire. È impossibile passare mesi a viaggiare da solo, arrivare in Patagonia e non sentirsi come uno che ha fatto qualcosa di molto sciocco. Nelle ore fredde che precedono l'alba, in un posto tanto desolato, tutta l'idea sembra sconsiderata, un rischio inutile, completamente senza senso. Ero arrivato da solo, avevo quasi raggiunto la mia destinazione, ma che significato aveva. Avevo voluto passare un bel periodo, non avevo niente da dimostrare. Eppure ogni giorno provo quella paura. Passare davanti a un incidente d'auto, leggere di un treno deragliato, vedere un carro funebre o un cimitero; star seduto in fondo a una corriera che devia bruscamente, o notare un'uscita di sicurezza serrata (nella maggior parte degli alberghi in cui dormivo, le uscite di sicurezza venivano chiuse con il lucchetto, di notte, per evitare che entrassero ladri); scribacchiare una cartolina e accorgermi dell'ambiguità della mia frase Questo è il mio ultimo viaggio - tutte queste situazioni facevano risuonare una solenne campana a morto in qualche angolo del cervello.
Avevo lasciato un luogo sicuro e avevo viaggiato fino ad arrivare a uno pericoloso. Il rischio era la morte, che sembrava ancor più imminente proprio perché, fino ad allora, non mi era successo niente di brutto. Viaggiare da quelle parti, in quel modo, pareva andare alla ricerca di guai. Frane, aerei precipitati, cibi avvelenati, sommosse, scoppi, squali, colera, inondazioni, cani idrofobi; tutti eventi quotidiani in questa parte del mondo, per evitarli ci voleva una vita magica. Sdraiato lì sulla panchina, non mi congratulai con me stesso perché ero arrivato così lontano, a una passo dalla mia destinazione. Piuttosto, capivo la gente che aveva ridacchiato quando avevo raccontato dov'ero diretto. Avevano ragione a prendermi in giro; nel loro modo semplice avevano riconosciuto la futilità dell'idea. Nella giungla del Costa Rica, il signor Thornberry aveva detto: «Io so cosa voglio vedere, scimmie e pappagalli! Dove sono?» In Patagonia c'erano i guanachi («I guanachi ti sputano addosso!»), ma, francamente, valeva la pena rischiare la vita per vederne uno? O, per dirlo in un altro modo, valeva la pena di passare anche solo una notte, semi assiderato, su una panchina di legno di una stazione della Patagonia per sentire il trillo del celebre «uccello flauto»? Allora mi sembrò di no. Più tardi mi parve una storia così divertente che dimenticai la mia paura. Ma avevo fortuna. Durante quel viaggio mi era capitato spesso di guardare fuori dal finestrino di un treno e pensare: Che posto tremendo per morirci.
Mi preoccupava anche l'idea di perdere il passaporto o il biglietto di ritorno, o di essere derubato di tutti i soldi; di prendere l'epatite e dover passare due mesi nell'ospedale di una città spaventosa come Guaya-quil o Villazón. Erano paure che si basavano su informazioni. «Rischia-mo la vita tutti i giorni, anche solo attraversando la strada», dicono persone benintenzionate, per rassicurarci. Ma nelle Ande e nei paesi primitivi si corrono rischi maggiori, e chi pensa il contrario è uno stupido.
Eppure ero contento, su quella panchina di Jacobacci, di essermi la sciato tutti gli altri alle spalle. Sebbene questa fosse una città con una via principale, una stazione ferroviaria, gente, cani e luci elettriche, era co sì vicina alla fine della terra da darmi la sensazione di essere un espio ratore solitario in una terra sconosciuta. Quell'illusione (che rimani1 un'illusione anche al Polo sud e alle sorgenti del Nilo) era una soddi sfazione sufficiente a spingermi oltre.
Mi appisolai, ma mi risvegliai per il freddo. Cercai di tenermi svc1 glio e di riscaldarmi. Feci altre tre passeggiate, stando alla larga dai ai ni. Si sentiva il canto di un gallo, ma l'alba non si faceva vedere, e il solo rumore era quello del vento, che premeva contro la stazione.
Ero arrivato a Ingeniero Jacobacci nell'oscurità, ed era ancora scuro quando salii sull'altro treno. Il capostazione mi diede dell'aliro le e mi disse che potevo salire in carrozza. Era effettivamente molto pimj« la, ne ero stato avvisato, e piena di polvere entrata dai finestrini. Mn perlomeno avevo un posto a sedere. Alle cinque cominciarono a formurtl gruppi di persone. La cosa incredibile era che, a quell'ora, cVnmo |>d« renti e amici venuti a salutarli. Avevo notato quest'usanza in iniln hi Mo livia e l'Argentina, questi commiati con una gran quantità di I un i, ni ibracci e mani agitate in segno d'addio; nelle stazioni più grandi c'erano uomini che piangevano al momento della separazione dalle mogli e dai figli. Lo trovavo toccante, e in contrasto con la loro ridicola esaltazione della propria mascolinità.
Si senti un fischio, a vapore, come un piffero acuto. La campanella suonò. Gli amici dei passeggeri balzarono giù dal treno, altri passeggeri salirono; poco prima delle sei ce ne andammo.
La luna splendeva nel ciclo blu. Non c'era il sole, e la terra intorno a Jacobacci era grigioazzurra e di un marrone pallido. Lasciammo la città prima che a oriente il ciclo cominciasse a rosseggiare. Ero contento di vedere le colline. Arrivando al buio, avevo immaginato che i dintorni fossero piatti come la zona che avevo visto al crepuscolo, quella landa desolata intorno al villaggio Ministero Ramos Mexia, dove ragaz-zini che vendevano uva saltellavano e cinguettavano nella polvere. Ma qui era diverso, e in ciclo non c'erano nuvole, quindi potevo sperare che la giornata sarebbe stata calda. Mangiai una mela e tirai fuori Boswell, e quando il sole spuntò mi addormentai tranquillamente.
Era un treno vecchio, e sebbene a questo punto avrei dovuto essere abituato alla stranezza delle ferrovie sudamericane, lo trovavo strano ugualmente. Dall'altra parte del corridoio era seduto un ragazzo, che mi guardava sbadigliare.
«Ha un nome questo treno?» chiesi. «Non capisco.»
«Il treno che ho preso per andare a Buenos Aires si chiama "Stella polare", e l'espresso per Bariloche ha il nome "Laghi del Sud". Quello per Mendoza si chiama "II Liberatore". Un nome così.»
Lui rise. «Questo treno è troppo insignificante per avere un nome. Il governo parla di eliminarlo.»
«Non è chiamato "La Freccia di Esquel", o qualcosa del genere?»
Scosse la testa.
«Oppure "Espresso della Patagonia?"»
«Vecchio Espresso della Patagonia», disse lui. «Ma i treni espressi dovrebbero essere molto veloci.»
«Non lo sono mai», dissi. «Sono stato su un espresso per Tucumàn che è arrivato con un giorno di ritardo. Ci ha messo sei ore per ripartire da una stazione, su a Humahuaca.»
«Inondazioni», disse il ragazzo. «Pioggia. Ma qui non piove, e il treno è lento lo stesso. Sono queste colline. Vede, ci giriamo sempre intorno.»
Era vero. I colli e le valli della Patagonia, che agli inizi avevo apprezzato perché rappresentavano un cambiamento, e perché erano innegabilmente belle, erano la causa della nostra lentezza. Su una linea retta questo viaggio sarebbe durato al massimo tre ore, ma il nostro arrivo a Esquel era previsto per le otto e mezza di sera; erano quasi quattordici ore. Più che colli veri e propri, i colli erano soufflé venuti male.
Era un treno a vapore, e per la prima volta da quando ero partito da casa avrei voluto avere una macchina fotografica, per farne una foto. Era un specie di matto samovar su ruote, con rattoppi di ferro sulla caldaia, tubi che perdevano nella parte inferiore, valvole sgocciolanti e gomiti di metallo che lanciavano getti di vapore ai lati. Andava a petrolio, quindi non gettava fumo nero, ma aveva problemi ai bronchi, ansimava e soffocava su per i pendii e sbuffava stranamente giù per le chine, quando pareva fuori controllo. Era a scartamento ridotto, e le piccole carrozze erano di legno. La prima classe non era più pulita della seconda, anche se aveva gli schienali più alti. Tutto il congegno scricchiolava, e quando andava veloce, il che succedeva raramente, faceva un tale fracasso di attacchi che cozzavano, finestre che sbatacchiavano e legno che gemeva che avevo l'impressione che stesse per scoppiare in mille pezzi, in un'esplosione di schegge che sarebbero cadute in uno dei burroni secchi lungo la ferrovia.
Il paesaggio aveva un aspetto preistorico, come gli sfondi dipinti dei musei che espongono scheletri di dinosauri: colli e gole, semplici e terribili; rovi e rocce; e tutto era levigato dal vento, come spogliato da una grande inondazione che avesse lavato via qualsiasi fisionomia palli colare. Il vento continuava a plasmare, impedendo agli alberi di cresci' re, spingendo la terra verso ovest, scoprendo altra roccia e perfino sni dicando i brutti cespugli.
Sul treno, la gente non guardava dal finestrino, eccetto alle sta/io ni, e anche lì solo per comprare uva o pane. Uno dei vantaggi del viag gio in treno è che sai dove ti trovi semplicemente guardando dal line strino. Non è necessario alcun cartello. Un colle, un fiume, un prato, tutti punti di riferimento che dicono fino a dove si è arrivati. Ma qiii-sto luogo non aveva punti di riferimento, o meglio era fatto tutto di punii di riferimento, indistinguibili uno dall'altro; migliala di colli e di lei i i di fiume asciutti, e miliardi di cespugli, tutti uguali. Dormicchiavo e mi risvegliavo, le ore passavano, lo scenario fuori dal finestrino non mutava. Le stazioni erano interscambiabili; un capannone, una piattaforma di cemento, uomini che fissavano, ragazzi con cesti, i cani, i furgoni ammaccati.
Guardai se c'erano dei guanachi, non avevo niente di meglio da fare. Non ce n'erano. Ma c'erano altri animali, uccelli di tutti i tipi, piccoli e cinguettanti, passeri e rondoni, falchi scuri e sparvieri. La Patagonia è senz'altro, perlomeno, un luogo protetto per gli uccelli. Qui si vedevano anche gufi e, più vicino alle Ande, grandi aquile; nell'estremo sud c'erano albatri di dimensioni enormi. La bruttezza del paesaggio permaneva senza interruzioni, e non sentivo alcun desiderio di muovermi dal treno. «Anche qui siamo grati al treno, come a un dio che ci conduce rapidamente attraverso queste ombre, con tanti pericoli nascosti», scrive Robert Louis Stevenson. «Con tanta agilità sfioriamo queste terre orribili; come il gabbiano, che vola sicuro attraverso l'uragano e oltre lo squalo.»
Il tipo dall'altro lato del corridoio stava dormendo. Guardai lui e gli altri passeggeri, e fui colpito dalla loro somiglianzà con me. Già agli inizi del viaggio avevo constatato che come viaggiatore ero poco credibile; non avevo né carte di credito né zaino, e non ero vestito così bene da poter essere un turista in una gita di dieci giorni fra rovine e cattedrali. Non ero neanche tanto sporco ed esausto da essere un vagabondo. La gente mi chiedeva che cosa facevo, e quando dicevo che ero un professore di geografia («Le vacanze di Pasqua!») mi guardavano dubbiosi. Accennavo a mia moglie e ai miei figli, ma perché io ero lì e loro da un'altra parte? Non avevo una risposta pronta. I turisti mi consideravano uno che ricadeva nel peccato, i giramondo parevano pensare che fossi un intruso, e i nativi non mi capivano. Era difficile convincere chiunque che non avevo motivi nascosti, non ero in fuga, non ero un truffatore professionale, un uomo con un piano. Il peggio era che avevo un piano, ma non desideravo rivelarlo. Se avessi detto a Thornberry, a Wolfgang, alla donna di Veracruz, o a Bert e Elvera Howie che ero uno scrittore, si sarebbero dati alla fuga oppure, per usare un'espressione di Bert Howie, «mi avrebbero riempito le orecchie di stronzate».
Ma in questo treno, il Vecchio Espresso della Patagonia, ero simile a tutti gli altri; poco rasato, discretamente presentabile, con una valigia ammaccata, un aspetto vagamente europeo, i baffi pendenti, le scarpe impermeabili consumate.Era un sollievo, finalmente ero anonimo. Ma che strano posto in cui essere anonimo. M'intonavo con il primo piano, ma che sfondo! Era stupefacente, appartenevo a quel treno.
Il ragazzo si svegliò.
«Quanto c'è per Norquinco?» chiese.
«Non lo so», dissi. «A me sembrano tutte uguali.»
L'uomo dietro di me disse: «Circa due ore».
Non indicò il finestrino, guardò l'orologio. Il paesaggio non era di nessun aiuto per stabilire dov'eravamo.
Il ragazzo si chiamava Renaldo. Il suo cognome era Davies, era gallese. Questa parte della Patagonia era piena di Jones, Williams, Powell e Pritchard, famiglie del Galles che erano migrate lungo l'altopiano, arrivando da Rawson, Trelew e da Puerto Madryn, con l'intenzione di fondare una nuova colonia gallese. E gente risoluta, indipendente e riservata, non i tipi canterini e sognatori a cui si associa il Galles, ma tutta un'altra specie, frequentatori di chiese, allevatori di pecore, tenacemente protestanti, con forti sentimenti per una patria che non hanno mai visto e per una lingua che parlano in pochi. (Un classico della letteratura gallese s'intitola Dringo'r Andes, «Salendo sulle Ande», scritto dalla gallese Eluned Morgan, che nacque nel golfo di Biscaglia durante la grande emigrazione). Renaldo voleva parlare in inglese, ma lo faceva in modo per me inintelligibile, così parlammo in spagnolo.
«Ho imparato l'inglese in una nave mercantile», disse. «Non è un buon posto per impararlo.»
Era stato sulla nave per due anni, e adesso stava tornando a casa.
«Se sei stato su una nave», dissi, «devi essere stato a Boston.»
«No», disse. «Ma sono stato in tutta l'America. In tutto il conii nente.»
«New York?»
«No.»
«New Orleans?»
«No.» Ora era perplesso. «America, non gli Stati Uniti.»
«Sud America?»
«Giusto, tutta quanta. In tutta l'America», disse. «E in Asia: Sloga pore, Hong Kong; e Bombay. E in Africa: Durban, Città del ( iapo, l'ori Elizabeth. Sono stato dappertutto.»
La nave in cui si era imbarcato era peruviana, ma l'equipaggio era composto principalmente da cinesi e indiani - «gli altri indiani, diversi dai nostri. Mi piacevano, più o meno. Parlavano, giocavamo a carte. Ma i cinesi! Li odiavo! Ti guardano e non dicono niente. Se vogliono qualcosa», fece il gesto di afferrare, «lo acciuffano; acciuffano e basta.»
Gli chiesi che impressione aveva avuto del Sud Africa. La sua risposta mi sorprese.
«Il Sud Africa è un cattivissimo posto», disse. «È molto bello, ma la società è crudele. Non ci crederai, ma dappertutto ci sono cartelli che dicono "Solo per bianchi." Taxi, autobus, negozi, "Solo per bianchi." I bianchi vanno da una parte, i neri dall'altra. Strano, no? E la maggior parte della gente è nera!» Lo raccontava più con stupore che con indignazione, ma aggiunse che non l'approvava.
Perché no? chiesi.
«Non va bene. "Solo per bianchi", "Solo per neri"», disse. «È un sistema stupido. Dimostra che hanno grossi problemi.»
Trovavo incoraggiante che un abitante della Patagonia privo di cultura potesse dimostrare tanto discernimento. Dissi. «La penso così anch'io.»
Disse: «Passerei più volentieri la mia vita a Barranquilla che a Durban. E Barranquilla è veramente orrenda».
«È vero», dissi. «Sono stato a Barranquilla, e l'ho detestata.»
«Non è un letamaio? Un posto veramente brutto.»
«Quando sono stato lì c'erano le elezioni.»
«Hanno le elezioni? Bah», disse lui. «Lì non c'è niente del tutto!»
Pensando a Barranquilla ridacchiava. Guardai dietro di lui, le colline che sembravano dune, i cespugli bassi, il sole accecante, gli sbuffi di polvere lanciati in aria dal treno. Lontano c'era un condor che volava in cerchio; i condor non battono le ali. Il disgusto di quel ragazzo della Patagonia per Barranquilla era un'avversione per la lenta decomposizione, per la muffa e gli insetti. Qui non marciva niente. Un essere morto diventava velocemente una carcassa secca; si raggrinziva ed era presto solo ossa. Non c'era umidità, niente di stagnante. Era la pulizia del descT to, la rapida distruzione provocata dal sole e dall'aridità; era un tc'rriio rio selvaggio e disidratato, un fossile sul fianco del pianeta. Qui i-raiio sopravvissute poche creature, ma quelle erano praticamente iiidistniiii bili.
«Così hai visto il mondo», dissi. «Ma perché torni a casa.'»
«Perché ho visto il mondo», disse. «Da nessuna parte è come qui. Troverò un lavoro, magari a costruire case o a riparare motori. A Nor-quinco o a Esquel.»
«Io sto andando a Esquel», dissi.
«Si fa prima prendendo la corriera da Bariloche.»
«Volevo prendere l'Espresso della Patagonia», dissi.
«Questo vecchio treno!»
Quando arrivammo a Norquinco e lui tirò la valigia verso la porta, dissi: «La regina d'Inghilterra - sai chi voglio dire?»
«La regina Elisabetta? Che cosa c'è?»
«Ha una fattoria proprio fuori Esquel. Molto bella, con una quantità di bestiame.»
Trascorsi quel pomeriggio sul treno come avevo trascorso pomeriggi su treni per tutto il percorso attraverso le Americhe. Ricordai persone che erano state crudeli con me; provai osservazioni taglienti che avrei dovuto pronunciare; revocai situazioni imbarazzanti della mia vita; rivissi mentalmente piccole vittorie e grandi sconfitte; immaginai d'essere sposato con qualcun'altra, di avere figli e di divorziare; mi elessi presidente di una repubblica delle banane, e cercai di tener testa a una chiassosa opposizione; studiai medicina, mi misi a praticare ed eseguii operazioni complesse; raccontai una lunga storia umoristica davanti a un grande pubblico, ma alla fine il premio andò a qualcun altro. Morii, e la gente parlò di me a voce molto alta. Fu un tipico pomeriggio di viaggio.
Avevo scelto come punto di riferimento sulla cartina il villaggio di Leleque, che però era ancora a ore di distanza. Il treno arrancava, raramente correva in linea retta, e ogni tanto si fermava - un urlo, la campanella, il fischio, l'abbaiare, e ripartivamo. Mi rendevo conto che il mio viaggio stava finendo, ma non ero triste quando mi veniva in mente che, dopo poche ore, forse al calare della notte, il treno mi avrebbe lasciato alla mia destinazione, e non ci sarebbe stato più nulla. Il pensiero correva alla stazione di Esquel, all'aereo per Buenos Aires, all'arrivo a ca sa. Sì, all'aeroporto avrei preso un taxi, al diavolo i soldi. La mia di-si i nazione era vicina, ero impaziente.
Ma il paesaggio insegnava pazienza, cautela, tenacia. Per vederlo bisognava studiarlo, un'occhiata non diceva niente. La locomotiva sbulla va avanzando a fatica sulle strette rotaie, lungo il deserto; pareva si-m pre sul punto di tirare le cuoia, esplodendo in una pioggia di metallo e vapore, oppure grippandosi in una sequenza di singulti e bloccandosi lungo un pendio, per poi scivolare indietro nell'avvallamento e non muoversi più. Sembrava un miracolo che una locomotiva vecchia come questa potesse andare avanti, e cominciai a interpretare i suoi respiri ansanti come segni di energia, e non di debolezza.
Ma la locomotiva e il paesaggio non potevano tener desta l'attenzione a lungo. Mi concentrai su Boswell, mangiai uva e sonnecchiai. Il sole era calato; a ovest le colline erano più alte, e il sole scivolava verso di loro. Il vento era più freddo. Ormai era evidente che non saremmo arrivati a Esquel prima del buio. Quando l'oscurità scese, lo fece nel modo improvviso della Patagonia, lesta come una tenda tirata giù, e riempì la notte di gelo. Nel silenzio del deserto si sentiva il suono del vento, e il treno che si affannava. Il treno fermava alle stazioni più piccole, prima di Esquel; la locomotiva tremava nel buio, e più in là il ciclo era un immenso setaccio di stelle blu.
Erano passate le otto quando vidi le luci. Guardai se ce n'erano altre, ma non ne vidi. Questi posti non erano niente, pensai, finché non ci si era in cima. Non sapevo che eravamo in cima a Esquel. Mi ero aspettato di più - un'oasi, forse pioppi più alti, la vista di qualche bar accogliente, un ristorante affollato, una chiesa illuminata a giorno, qualcosa che desse significato al mio arrivo. Oppure qualcosa di meno, come una delle stazioni minuscole lungo la ferrovia; come Jacobacci, qualche capanna, dei cani, una campanella. Il treno si svuotò rapidamente.
Trovai un uomo con un berretto dall'aria ufficiale, e un distintivo delle ferrovie appuntato alla camicia. C'era un albergo lì vicino?
«Esquel è piena di alberghi», rispose. «Alcuni sono anche buoni.»
Gli chiesi di dirmene uno, e lui lo fece. Mi ci infilai subito e feci un bagno, freddo, non per mia scelta. Poi andai al ristorante.
«Che cosa beve? Vino rosso?»
«Sì», dissi.
«E che cosa mangia? Una bistecca?»
«Sì.»
Come sempre. Ma qui l'atmosfera era diversa, come in un saloon del west, con la gente che veniva in città per il fine settimana, le facce parevano di cuoio; si tenevano addosso le giacche di pelle anche nel ristorante, un uomo stava dritto sulla sua sedia, con un libro in mano.
I camerieri correvano avanti e indietro con i loro vassoi. Vidi un orologio a muro, un calendario, la fotografia di quella che probabilmente era una squadra di calcio locale, l'immagine di un santo.
Avevo pensato di fare una passeggiata, di cercare un bar. I muscoli mi facevano male per il viaggio, e volevo sgranchirmi. Ma stando lì seduto mi appisolai. Mi risvegliai con uno scossone e chiesi il conto.
A letto, la sabbia e la ghiaia che erano fra le pagine di Boswell mi caddero sul petto. Lessi una frase, guardai la sabbia che scivolava, e nel gesto di toglierla mi addormentai.
L'idea iniziale era di arrivare a Esquel il giorno prima di Pasqua, e di svegliarmi la domenica per guardare l'alba. Ma la Pasqua era già passata. Questa non era una data particolare, e io non mi svegliai all'ora che avevo in mente. Mi alzai e uscii. Era una giornata assolata e ventosa, come in tutti i giorni dell'anno, in quella parte della Patagonia.
Camminai fino alla stazione. La locomotiva che mi aveva portato a Esquel aveva un'aria derelitta, sul binario di raccordo, come se non dovesse mettersi in moto mai più. Ma aveva forza per altri cent'anni, ne ero certo. Camminai oltre, passando davanti alle case di un piano e alle capanne di una stanza, fino ad arrivare dove la strada diventava un sentiero polveroso. C'era un pendio roccioso, qualche pecora, il resto erano cespugli ed erbacce. Guardando attentamente si vedeva che i cespugli avevano piccoli fiori rosa e gialli. Il vento li scuoteva. Mi avvicinai. Tremavano, ma erano graziosi. Dietro di me c'era un gran deserto.
Era questo il paradosso della Patagonia; star qui spingeva a diventare un miniaturista, oppure a interessarsi a enormi spazi vuoti. Non c'era un campo di studio intermedio; o l'enormità dello spazio deserto o la vista di un fiore piccolissimo. Si doveva scegliere fra il minuscolo e l'immenso.
Il paradosso mi divertiva. L'arrivo non aveva importanza, era il viaggio che contava. Avrei seguito il consiglio di Johnson. Agli inizi della sua carriera aveva tradotto il libro di un viaggiatore portoghese in Abissinia. Nella sua prefazione, Johnson scriveva: «Non ha cercato di divertire i lettori con assurdità immaginarie, o fantasticherie incredibili; che sia vero o no, tutto quel che riferisce è perlomeno verosimile, e chi non racconta nulla che ecceda i confini della verosimiglianza ha il diritto di pre tendere che chi non lo può contraddire gli creda».
Le pecore mi videro. Le più giovani si misero a scalciare. Quando guardai di nuovo nella loro dirczione se ne erano andate, e io ero una formica in un formicaio sconosciuto. In quello spazio era impossibile accertare le dimensioni delle cose. Non c'erano sentieri fra i cespugli, ma potevo guardarli dall'alto, guardare l'oceano di spine che in distanza sembrava così mite, da vicino così crudele, e in primo piano come mazzi di fiori malriusciti. Era tutto perfettamente calmo, e senza odori.
Sapevo di non essere da nessuna parte, ma la cosa più sorprendente era che dopo tutto quel tempo ero ancora nel mondo, in un punto in fondo alla carta geografica. Il paesaggio era scarno, ma dovevo ammettere che aveva lineamenti decifrabili, e che io c'ero dentro. Il suo aspetto era una scoperta. Pensai che anche «da nessuna parte» era un luogo.
In basso la valle diventava profonda, di una roccia grigia che portava le strisce delle ere e le spaccature delle inondazioni. Più in là c'era una sequenza di colli, con le fenditure e i tagli fatti dal vento, che ora cantava nei cespugli. I cespugli si scuotevano al canto, poi s'irrigidivano silenziosi. Il ciclo era di un azzurro terso. Una nuvola soffice, bianca come un fiore di cotogno, portava un po' di ombra dalla città, o dal Polo sud. La vidi avvicinarsi. Fluttuò sopra i cespugli e mi passò sulla testa; un attimo di freddo e poi andò sgualcendosi verso est. Qui non c'erano voci, c'era quello che vedevo. Sebbene più avanti ci fossero montagne, ghiacciai, albatri e indios, qui non c'era niente di cui parlare, nulla che mi trattenesse ancora. Solo il paradosso della Patagonia: lo spazio immenso e i fiori minuscoli del cespuglio simile all'artemisia. Il nulla in sé, che per qualche intrepido viaggiatore segna l'inizio, per me era una conclusione. Ero arrivato in Patagonia, e mi venne da ridere ricordando che ero partito da Boston, con il treno sotterraneo che la gente prendeva per andare a lavorare.
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