Nella stanza da pranzo della nonna c’era un armadietto chiuso da uno sportello a vetri, e dentro l’armadietto un pezzo di pelle. Il pezzo era piccolo, ma spesso e coriaceo, con ciuffi di ispidi peli rossicci.
Uno spillo arrugginito lo fissava a un cartoncino. Sul cartoncino c’era scritto qualcosa con inchiostro nero sbiadito, ma io ero troppo piccolo, allora, per leggere.
«Cos’è questo?».
«Un pezzo di brontosauro».
La mamma conosceva i nomi di due animali preistorici: il brontosauro e il mammut.
Sapeva che questo non era un mammut. I mammut venivano dalla Siberia.
Appena vide il brontosauro spuntare dal ghiaccio capì subito cosa bisognava fare: lo tagliò a pezzi, salò i pezzi e li mise in barili che spedì via mare al Natural History Museum di Londra. Nella mia immaginazione vedevo sangue e ghiaccio, carne e sale, squadre di indios al lavoro e file di barili lungo la spiaggia: un lavoro gigantesco e del tutto inutile.
Infatti, durante il viaggio attraverso i tropici il brontosauro si decompose e a Londra arrivò soltanto un ammasso di roba putrefatta. Ecco perché al museo si possono vedere le ossa del brontosauro, ma non la pelle.
Per fortuna, però, il cugino Charley aveva mandato quel pezzetto di pelle alla nonna.
La nonna viveva in una casa di mattoni protetta da una siepe di alloro dalle foglie picchiettate di giallo, con alti camini, frontoni appuntiti e un giardino pieno di rose rosso-sangue. Dentro si sentiva odor di chiesa.
Non ricordo molto della mia nonna tranne la sua grande mole. Solevo arrampicarmi sul suo gran seno oppure osservarla di nascosto per vedere se riusciva ad alzarsi dalla sedia. Sopra di lei era appesa una serie di ritratti, grasse e burrose facce di ricchi olandesi annidate in bianchi collari.
Mai in vita mia ho tanto desiderato una cosa quanto quel pezzo di pelle. La nonna diceva che un giorno, forse, l’avrei avuto. E quando morì io dissi: «Ora lo posso avere, quel pezzo di brontosauro». Ma la mamma disse: «Oh, quella roba! Ho paura che l’abbiamo buttata via».
A scuola risero della storia del brontosauro. Il professore di scienze disse che mi ero confuso col mammut siberiano. Agli allievi raccontò di scienziati russi che avevano pranzato con mammut congelato e mi disse di non raccontare frottole.
Il mio interesse per la Patagonia sopravvisse alla perdita della pelle, perché la guerra fredda fece nascere in me la passione per la geografìa. Verso la fine degli Anni Quaranta il Cannibale del Cremlino distese un’ombra sulle nostre vite; poteva succedere di scambiare i suoi baffi per denti.
In seguito leggemmo della bomba al cobalto, che era peggiore della bomba all’idrogeno e poteva spianare il nostro pianeta con una reazione a catena senza fine.
Sapevo come era il color cobalto perché l’avevo visto nella scatola di colori della mia prozia, vissuta a Capri al tempo di Maksim Gorkij dipingendo nudi di giovani capresi.
In seguito la sua arte si era fatta esclusivamente religiosa. Dipinse molti quadri di san Sebastiano, sempre su sfondo blu-cobalto, sempre lo stesso bel giovane, saldo sulle gambe malgrado le frecce che lo trapassavano da parte a parte.
Così immaginavo la bomba al cobalto come un denso cumulo di nuvole blu, sprigionanti lingue di fuoco ai margini. E vedevo me stesso, solo su un verde promontorio, scrutare all’orizzonte l’avanzata delle nuvole.
Immaginavo una bassa casa di legno, col tetto di assicelle, incatramata per resistere agli uragani, con dentro ciocchi fiammeggianti e, allineati sulle pareti, i migliori libri: un posto dove vivere mentre il resto del mondo saltava per aria.
Uno spillo arrugginito lo fissava a un cartoncino. Sul cartoncino c’era scritto qualcosa con inchiostro nero sbiadito, ma io ero troppo piccolo, allora, per leggere.
«Cos’è questo?».
«Un pezzo di brontosauro».
La mamma conosceva i nomi di due animali preistorici: il brontosauro e il mammut.
Sapeva che questo non era un mammut. I mammut venivano dalla Siberia.
Scartate le isole del Pacifico, come posto più sicuro della Terra venne scelta la Patagonia.
Il brontosauro, come poi ho imparato, era annegato nel Diluvio perché Noè lo aveva giudicato troppo grosso per essere imbarcato sull’Arca. Me lo figuravo irsuto, con movimenti pesanti e rumorosi, artigli, zanne e una maligna luce verde negli occhi. A volte irrompeva rovinosamente attraverso il muro della mia camera, svegliandomi di soprassalto.
Questo particolare brontosauro era vissuto in Patagonia, regione del Sud America all’estremo limite del mondo.
Migliaia di anni prima era caduto in un ghiacciaio, era disceso lungo il fianco di una montagna in una prigione di ghiaccio azzurro ed era arrivato in fondo in perfette condizioni. Qui lo trovò Charley Milward il Marinaio, cugino della nonna.
Leggi anche: Il deserto patagonico è il maggiore deserto dell'intero continente americano e il settimo per area nel mondo.Charley Milward era capitano di un mercantile colato a picco all’entrata dello Stretto di Magellano.
Scampato al naufragio si stabilì nelle vicinanze, a Punta Arenas, dove divenne direttore di un cantiere di riparazioni navali. Charley Milward me lo immaginavo come un dio fra gli uomini – alto, taciturno e forte, con neri favoriti e fieri occhi azzurri. Portava il berretto da marinaio inclinato su un lato e l’orlo degli stivali piegato all’ingiù.
Nella mia immaginazione vedevo sangue e ghiaccio.
Appena vide il brontosauro spuntare dal ghiaccio capì subito cosa bisognava fare: lo tagliò a pezzi, salò i pezzi e li mise in barili che spedì via mare al Natural History Museum di Londra. Nella mia immaginazione vedevo sangue e ghiaccio, carne e sale, squadre di indios al lavoro e file di barili lungo la spiaggia: un lavoro gigantesco e del tutto inutile.
Infatti, durante il viaggio attraverso i tropici il brontosauro si decompose e a Londra arrivò soltanto un ammasso di roba putrefatta. Ecco perché al museo si possono vedere le ossa del brontosauro, ma non la pelle.
Per fortuna, però, il cugino Charley aveva mandato quel pezzetto di pelle alla nonna.
La nonna viveva in una casa di mattoni protetta da una siepe di alloro dalle foglie picchiettate di giallo, con alti camini, frontoni appuntiti e un giardino pieno di rose rosso-sangue. Dentro si sentiva odor di chiesa.
Non ricordo molto della mia nonna tranne la sua grande mole. Solevo arrampicarmi sul suo gran seno oppure osservarla di nascosto per vedere se riusciva ad alzarsi dalla sedia. Sopra di lei era appesa una serie di ritratti, grasse e burrose facce di ricchi olandesi annidate in bianchi collari.
Sulla mensola del camino c’erano due nanerottoli giapponesi.
Sulla mensola del camino c’erano due nanerottoli giapponesi, con occhi d’avorio rossi e bianchi sporgenti dalla testa come quelli delle lumache. Giocavo con questi o con una scimmietta tutta snodata, un giocattolo tedesco, senza tuttavia smettere di tormentare la nonna chiedendole in continuazione di darmi il pezzo di brontosauro.
Mai in vita mia ho tanto desiderato una cosa quanto quel pezzo di pelle. La nonna diceva che un giorno, forse, l’avrei avuto. E quando morì io dissi: «Ora lo posso avere, quel pezzo di brontosauro». Ma la mamma disse: «Oh, quella roba! Ho paura che l’abbiamo buttata via».
A scuola risero della storia del brontosauro. Il professore di scienze disse che mi ero confuso col mammut siberiano. Agli allievi raccontò di scienziati russi che avevano pranzato con mammut congelato e mi disse di non raccontare frottole.
Oltre tutto, aggiunse, i brontosauri erano rettili. Non avevano peli, ma una corazza di pelle squamosa. E ci mostrò una ricostruzione dell’animale eseguita da un disegnatore – così diverso da come me lo ero immaginato – color grigio verde, con la testa piccola e una gigantesca serie di gibbosità lungo le vertebre, nell’atto di mangiare placidamente erbaccia in un lago.
Mi vergognai del mio peloso brontosauro, ma sapevo che non era un mammut.
Ci vollero parecchi anni prima che la verità saltasse fuori. L’animale di Charley Milward non era un brontosauro, ma un milodonte o bradipo gigante. Charley non aveva mai trovato un esemplare intero e neppure un intero scheletro, ma soltanto un po’ di pelle e qualche osso, conservati dal freddo, dal secco e dal sale, in una caverna sul Last Hope Sound, nella Patagonia cilena. Aveva spedito la sua raccolta in Inghilterra, vendendola al British Museum. Questa versione della storia era meno romantica, ma aveva il pregio di essere vera.
Il mio interesse per la Patagonia sopravvisse alla perdita della pelle, perché la guerra fredda fece nascere in me la passione per la geografìa. Verso la fine degli Anni Quaranta il Cannibale del Cremlino distese un’ombra sulle nostre vite; poteva succedere di scambiare i suoi baffi per denti.
Ascoltavamo conferenze sui suoi piani di guerra.
Parlando di difesa civile l’istruttore tracciava dei cerchi intorno alle città d’Europa per mostrarci le zone di distruzione totale e quelle di distruzione parziale.
Scartate le isole del Pacifico, come posto più sicuro della Terra venne scelta la Patagonia.Twitta
Le zone erano una accanto all’altra, senza nessuno spazio fra di loro. L’istruttore portava pantaloni corti color cachi; le sue ginocchia erano bianche e ossute. Chiaro che non c’era nessuna speranza; la guerra stava per arrivare e noi non potevamo farci niente.In seguito leggemmo della bomba al cobalto, che era peggiore della bomba all’idrogeno e poteva spianare il nostro pianeta con una reazione a catena senza fine.
Sapevo come era il color cobalto perché l’avevo visto nella scatola di colori della mia prozia, vissuta a Capri al tempo di Maksim Gorkij dipingendo nudi di giovani capresi.
In seguito la sua arte si era fatta esclusivamente religiosa. Dipinse molti quadri di san Sebastiano, sempre su sfondo blu-cobalto, sempre lo stesso bel giovane, saldo sulle gambe malgrado le frecce che lo trapassavano da parte a parte.
Così immaginavo la bomba al cobalto come un denso cumulo di nuvole blu, sprigionanti lingue di fuoco ai margini. E vedevo me stesso, solo su un verde promontorio, scrutare all’orizzonte l’avanzata delle nuvole.
Eppure speravamo di sopravvivere al flagello.
Fu istituito un comitato di emigrazione e vennero fatti dei piani per andare a stabilirci in qualche remoto angolo della terra. Studiammo attentamente gli atlanti, individuando la direzione dei venti predominanti e i luoghi di probabile caduta di piogge radioattive.
La guerra sarebbe scoppiata nell’emisfero nord, perciò la nostra attenzione si rivolse al Sud. Scartate le isole del Pacifico, perché le isole sono trappole, scartate l’Australia e la Nuova Zelanda, come posto più sicuro della Terra venne scelta la Patagonia.
Immaginavo una bassa casa di legno, col tetto di assicelle, incatramata per resistere agli uragani, con dentro ciocchi fiammeggianti e, allineati sulle pareti, i migliori libri: un posto dove vivere mentre il resto del mondo saltava per aria.
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