

"Patagonia" dicevano Coleridge e Melville per significare qualcosa di estremo. "Non c'è più che la Patagonia, la Patagonia, che si addica alla mia immensa tristezza", cantava Cendras agli inizi di questo secolo.
Metafora del viaggio in senso assoluto, dell'errare come fuga, evasione e libertà da quanto vi è di reale in questo mondo, viene scelta dai viandanti per gli scenari incantati e per la posizione estrema che occupa nel globo terrestre.
"Andato in Patagonia per sei mesi" è il telegramma che Chatwin mandò al Sunday Times, testata per la quale era giornalista, per rassegnare le proprie dimissioni. Non era la prima volta che questo strano viandante in calzoncini caki, si lasciava il mondo alle spalle. L'aveva già fatto, lasciando un posto importante presso la casa d'aste Sotheby per il Sudan. Per l'Africa la partenza affrettata fu dovuta a una parziale cecità da curare. Per la Patagonia la partenza fu, solo nel 1983, così spiegata:"Un pomeriggio dei primi anni settanta, a Parigi, andai a fare visita a Eileen Gray, architetto e designer, che a novantatré anni lavorava come niente fosse quattordici ore al giorno. Abitava in Rue Bonaparte, e nel suo salotto era appesa una carta della Patagonia, da lei dipinta a tempera.
"Ho sempre desiderato andarci" dissi. "Anch'io" fece lei. "ci vada per me". Andai. … . sei mesi dopo tornai con l'ossatura di un libro, che questa volta arrivò ad essere pubblicato".
Un viaggio in Patagonia è, per chiunque lo intraprenda, un viaggio alla ricerca del proprio io. Perché se il traguardo geografico è ben noto (raggiungere l'estremo sud dove oltre non si può andare), non è altrettanto facile scoprire la propria meta interiore. Che nel deserto patagonico appare ben più chiara che nella vita di tutti i giorni. Se non altro perché, ammesso si viaggi soli, si possono trascorrere giorni senza incontrare anima viva. E in questo caso la convivenza con noi stessi può prendere risvolti piacevoli.

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