Erano passate le otto quando vidi le luci. Guardai se ce n'erano altre, ma non ne vidi. Questi posti non erano niente, pensai, finché non ci si era in cima. Non sapevo che eravamo in cima a Esquel.
Mi ero aspettato di più - un'oasi, forse pioppi più alti, la vista di qualche bar accogliente, un ristorante affollato, una chiesa illuminata a giorno, qualcosa che desse significato al mio arrivo. Oppure qualcosa di meno, come una delle stazioni minuscole lungo la ferrovia; come Jacobacci, qualche capanna, dei cani, una campanella. Il treno si svuotò rapidamente.
Trovai un uomo con un berretto dall'aria ufficiale, e un distintivo delle ferrovie appuntato alla camicia. C'era un albergo lì vicino?
«Esquel è piena di alberghi», rispose. «Alcuni sono anche buoni.»
Gli chiesi di dirmene uno, e lui lo fece. Mi ci infilai subito e feci un bagno, freddo, non per mia scelta. Poi andai al ristorante.
«Che cosa beve? Vino rosso?»
«Sì», dissi.
«E che cosa mangia? Una bistecca?»
«Sì.»
Come sempre. Ma qui l'atmosfera era diversa, come in un saloon del west, con la gente che veniva in città per il fine settimana, le facce parevano di cuoio; si tenevano addosso le giacche di pelle anche nel ristorante, un uomo stava dritto sulla sua sedia, con un libro in mano. I camerieri correvano avanti e indietro con i loro vassoi. Vidi un orologio a muro, un calendario, la fotografia di quella che probabilmente era una squadra di calcio locale, l'immagine di un santo.
Avevo pensato di fare una passeggiata, di cercare un bar. I muscoli mi facevano male per il viaggio, e volevo sgranchirmi. Ma stando lì seduto mi appisolai. Mi risvegliai con uno scossone e chiesi il conto.
A letto, la sabbia e la ghiaia che erano fra le pagine di Boswell mi caddero sul petto. Lessi una frase, guardai la sabbia che scivolava, e nel gesto di toglierla mi addormentai.
L'idea iniziale era di arrivare a Esquel il giorno prima di Pasqua, e di svegliarmi la domenica per guardare l'alba. Ma la Pasqua era già passata. Questa non era una data particolare, e io non mi svegliai all'ora che avevo in mente. Mi alzai e uscii.
Camminai fino alla stazione. La locomotiva che mi aveva portato a Esquel aveva un'aria derelitta, sul binario di raccordo, come se non dovesse mettersi in moto mai più. Ma aveva forza per altri cent'anni, ne ero certo. Camminai oltre, passando davanti alle case di un piano e alle capanne di una stanza, fino ad arrivare dove la strada diventava un sentiero polveroso. C'era un pendio roccioso, qualche pecora, il resto erano cespugli ed erbacce. Guardando attentamente si vedeva che i cespugli avevano piccoli fiori rosa e gialli. Il vento li scuoteva. Mi avvicinai. Tremavano, ma erano graziosi. Dietro di me c'era un gran deserto.
Era questo il paradosso della Patagonia; star qui spingeva a diventare un miniaturista, oppure a interessarsi a enormi spazi vuoti. Non c'era un campo di studio intermedio; o l'enormità dello spazio deserto o la vista di un fiore piccolissimo. Si doveva scegliere fra il minuscolo e l'immenso.
Il paradosso mi divertiva. L'arrivo non aveva importanza, era il viaggio che contava. Avrei seguito il consiglio di Johnson. Agli inizi della sua carriera aveva tradotto il libro di un viaggiatore portoghese in Abissinia. Nella sua prefazione, Johnson scriveva: «Non ha cercato di divertire i lettori con assurdità immaginarie, o fantasticherie incredibili; che sia vero o no, tutto quel che riferisce è perlomeno verosimile, e chi non racconta nulla che ecceda i confini della verosimiglianza ha il diritto di pre tendere che chi non lo può contraddire gli creda».
Le pecore mi videro. Le più giovani si misero a scalciare. Quando guardai di nuovo nella loro dirczione se ne erano andate, e io ero una formica in un formicaio sconosciuto. In quello spazio era impossibile accertare le dimensioni delle cose. Non c'erano sentieri fra i cespugli, ma potevo guardarli dall'alto, guardare l'oceano di spine che in distanza sembrava così mite, da vicino così crudele, e in primo piano come mazzi di fiori malriusciti. Era tutto perfettamente calmo, e senza odori.
Sapevo di non essere da nessuna parte, ma la cosa più sorprendente era che dopo tutto quel tempo ero ancora nel mondo, in un punto in fondo alla carta geografica. Il paesaggio era scarno, ma dovevo ammettere che aveva lineamenti decifrabili, e che io c'ero dentro. Il suo aspetto era una scoperta. Pensai che anche «da nessuna parte» era un luogo.
In basso la valle diventava profonda, di una roccia grigia che portava le strisce delle ere e le spaccature delle inondazioni. Più in là c'era una sequenza di colli, con le fenditure e i tagli fatti dal vento, che ora cantava nei cespugli. I cespugli si scuotevano al canto, poi s'irrigidivano silenziosi. Il ciclo era di un azzurro terso. Una nuvola soffice, bianca come un fiore di cotogno, portava un po' di ombra dalla città, o dal Polo sud. La vidi avvicinarsi.
Fluttuò sopra i cespugli e mi passò sulla testa; un attimo di freddo e poi andò sgualcendosi verso est. Qui non c'erano voci, c'era quello che vedevo. Sebbene più avanti ci fossero montagne, ghiacciai, albatri e indios, qui non c'era niente di cui parlare, nulla che mi trattenesse ancora. Solo il paradosso della Patagonia: lo spazio immenso e i fiori minuscoli del cespuglio simile all'artemisia. Il nulla in sé, che per qualche intrepido viaggiatore segna l'inizio, per me era una conclusione. Ero arrivato in Patagonia, e mi venne da ridere ricordando che ero partito da Boston, con il treno sotterraneo che la gente prendeva per andare a lavorare.
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