Otto non ebbe bisogno di svegliarmi, ci pensò la polvere. Riempì il mio scompartimento e mentre il Lagos del Sur correva attraverso l'altopiano dove piove raramente (a che servivano qui le scarpe impermeabili?) la polvere veniva sollevata, e la nostra velocità la faceva entrare con forza attraverso le finestre che sbatacchiavano e le porte dondolanti.
Mi svegliai sentendomi soffocare, e mi feci una maschera con il lenzuolo per poter respirare. Quando aprii la porta, una nuvola di polvere mi volò addosso. Non era una normale tempesta di sabbia, pareva più un disastro nel pozzo di una miniera: il rumore del treno, l'oscurità, la poi vere, il freddo. Non c'era pericolo che perdessi la stazione di Ingenero Jacobacci per via del sonno. Appena dopo mezzanotte ero compici il mente sveglio. Digrignai i denti, e granelli di sabbia scricchiolarono nei i molari.
Misi a posto la valigia, riempii le tasche con le mele che avevo coni-prato a Carmen de Patagones e andai all'entrata del vagone ad aspri ture il segnale di Otto. Stetti lì seduto. La polvere vorticava dal corridoio, avvolgeva in folate le lampadine e copriva gli specchi e le fine-siri.1 con pelo di criceto. Tenni un fazzoletto sulla faccia. Lavarsi non aveva spfl« -, so; non c'era sapone, e l'acqua era gelata.
Otto comparve qualche tempo dopo. Si era messo l'unilomic di ferroviere sul pigiama, e aveva un'aria disfatta. Battè sul suo orologio polso e disse con voce malferma: «Jacobacci, venti minuti».
Volevo tornare a letto. L'ultima cosa che avrei desiderato era tralasciare la sicurezza del treno per l'incertezza esterna. Fuori c'era il vuoto, e niente era sicuro. Tutti quelli che avevo incontrato mi avevano avvertito di non prendere il treno per Esquel, ma che cosa potevo fare? Dovevo andare a Esquel prima di tornare a casa.
Pensavo di essere l'unico a scendere a Ingeniero Jacobacci ma mi sbagliavo. C'erano due vecchi che portavano grandi fusti di petrolio come parte del bagaglio, una donna con un bambino al collo e un altro che le andava dietro passo passo, una coppia con una valigia legata con spago e cinture, e altri che erano ombre. La stazione era piccola, sulla banchina c'era appena lo spazio per tenerci. Le persone che avevano viaggiato in seconda classe, ed erano state svegliate dallo scossone della fermata e dalle luci della stazione, avevano i volti affaticati ed esangui. Il treno sibilò per mezz'ora davanti alla banchina, poi si allontanò molto lentamente. Si lasciò dietro polvere, luce fioca e silenzio.
Sembrò che si portasse via il mondo.
Quel treno espresso - come sognavo di esserci ancora dentro! -aveva confuso le distanze e le altitudini. I dati furono forniti a Jacobacci: eravamo a più di mille miglia da Buenos Aires, e da Carmen de Patagones, che era a livello del mare, eravamo saliti per più di mille metri, su un altopiano che si riabbassava prima dello stretto di Magellano. In questo vento, a quest'altezza e a quest'ora - erano le due del mattino -a Jacobacci faceva molto freddo. Nessuno si ferma a Jacobacci, mi avevano detto. Avevo la prova del contrario. C'erano passeggeri che erano scesi. Pensai che avrebbero aspettato il treno per Esquel, come me. Mi guardai attorno, se n'erano andati.
Dove? In quel vento, quel buio, quelle capanne nel deserto. Non prendevano un altro treno, vivevano a Jacobacci. Più avanti lo considerai un pensiero ingenuo, ma al momento riflettei su com'era strano che delle persone — emigranti e figli di emigranti - avessero scelto di vivere lì, con tutti i posti che c'erano al mondo. Non c'erano né acqua né ombra, le strade erano terribili, e c'era poco lavoro pagato. Per quanto fossero tenaci, non potevano avere la resistenza e l'ingegnosità degli indios che, comunque, non avevano mai popolato questa parte della Patagonia. A nord est c'erano le fertili praterie di Bahia Bianca, a ovest i laghi - il paradiso tirolese di Bariloche.
Per via di qualche mucca o pecora, e di una caparbietà sconcertante, c'era gente che viveva in questo villaggio minuscolo della Patagonia in cui la linea ferroviaria si divideva, un raccordo nel deserto. Ma era un pensiero ingenuo. Ci sono tanti che hanno bisogno di spazio assai più che di erba o alberi, e per loro le città e le foreste sono solo confusione. Qui puoi essere te stesso, mi disse un gallese in Patagonia. Be', su quello non c'erano dubbi.
Lasciai la valigia sulla banchina e mi misi a passeggiare fumando la pipa. Il primo treno per Buenos Aires sarebbe passato fra tre giorni. Un manifesto dell'Unesco inchiodato al muro della stazione mi parlava della malnutrizione in America latina. Come in Guatemala, un cartello diceva Prendi il treno, costa meno! E un altro II treno ti è amico - diventa amico del treno! Da un palo della banchina pendeva una campana di bronzo, come una vecchia campanella delle scuole. Il capostazione l'aveva suonata subito prima che il Lagos del Sur ripartisse, ma nessuno ci era salito.
Il treno era andato in una dirczione, i passeggeri di Jacobacci in un'altra. Così ero rimasto solo, come Ismaele: «E solo io sono scampato, per poterlo raccontare». Era un posto freddo e deprimente, ma dovevo stare lì quattro ore ad aspettare il minuscolo treno a vapore per Esquel, non avevo altra scelta.
Pensavo anche: È perfetto. Se un aspetto del viaggio era l'abbandonarsi al brivido, proprio dell'esploratore, di trovarsi da solo, di avere lasciato indietro tutti gli altri, dopo quindici mila o ventimila miglia, e di essersi imbarcato in una missione solitària alla scoperta di un luogo remoto, allora avevo realizzato il sogno del viaggiatore. Il treno va mille miglia oltre Buenos Aires, si ferma in me/ zo al deserto e tu scendi. Ti guardi intorno, sei solo. E come arrivare. I1, già come una scoperta, ha la stessa singolarità. Il ciclo era pieno di stcl le in costellazioni non familiari, perfino la luna era storta, come una ver sione antipode di quella a cui ero abituato. Era tutto nuovo. Nei ini gliori libri di viaggi, la parola solo è implicita in ogni pagina emo/.io nante, è fine e ineliminabile come una filigrana. Questa conce/ioni1, l'i dea di poter farne il resoconto - perché ero partito proprio con Pillai ili scrivere un libro, no? - compensava i disagi. Solo, solo; era comi: la prova del mio successo. Avevo dovuto viaggiare molto lontano per urrivnrc a questa condizione solitària.
Una voce, un gracidio di rana, chiese: «Tè?»
Era il capostazione. Indossava un cappotto invernale, e scarponi rotti, e sul bavero del cappotto aveva il simbolo delle ferrovie General Roca. Nel suo ufficio, un piccolo bollitore da tè ammacatto su una griglia di fili di ferro improvvisata.
Pensai che fosse meglio spiegare la mia presenza: «Aspetto il treno per Esquel».
«Esquel è molto bella.»
II suo era il punto di vista da Jacobacci. Era il primo che sentivo lodare Esquel, ma avendo visto un po' di Jacobacci capivo il perché. In Massachusetts, gli abitanti di Belchertown hanno sempre una buona parola per Holyoke. Aveva riempito una piccola tazza di foglie di mate (che vengono da un albero sempre verde, l'Ilex) e ci infilò una cannuccia d'argento. La tazza era d'osso, il corno di una mucca con una rozza scritta ornamentale.
Disse: «A Esquel ci sono tante cose da fare. Ci sono alberghi, ristoranti, grandi fattorie. A un'ottantina di miglia dalla città troverà un bellissimo parco, con alberi, erba, tutto quanto. Eh sì, Esquel è un bel posto».
Versò acqua bollente sulle foglie e mi passò la tazza.
«Le piace?»
«Molto buono. Mi piace il mate.» Ci aveva messo troppo zucchero, e il sapore era disgustoso.
«Intendo dire la tazza.»
La guardai.
«Un corno di mucca», disse. «E del Paraguay.»
Lo dicevano anche i graffi incisi sopra. Dissi che l'ammiravo.
«È stato in Paraguay?»
Alzò le spalle. «C'è stata mia moglie. Suo fratello abita là. C'è andata l'anno scorso.» Fece un largo sorriso. «In aereo.»
Annuiva e preparava un altra tazza di tè. Gli feci domande su Jacobacci, sul treno, sulla Patagonia. Le sue risposte non erano interessanti. Voleva parlare di soldi. Quanto era costata la mia valigia? Quanto veniva una casa negli Stati Uniti? Quanto guadagnavo? Quanto costava un'automobile nuova? A titolo d'informazione gli dissi anche quanto costava una bistecca da mezzo chilo in Massachusetts, e lui rimase senza fiato. Smise di lamentarsi e prese a vantarsi del prezzo della lombata di manzo.
Magari avesse detto Vuoi sentire una storia strana? Era già vecchio abbastanza da poter conoscere storie interessanti. Ma era mezzo addormentato, faceva freddo, ed erano quasi le tre del mattino. Così lo lasciai solo e uscii. Camminai lungo i binari, allontanandomi dalle luci della stazione. Il vento raspava fra i rovi come sabbia su un piano inclinato. L'aria odorava di polvere. Sopra i cespugli, la luna risplendeva di un colore blu sulla monotonia gibbosa della Patagonia.
Sentii un ringhio. Trenta metri più in là c'era una capanna bassa e nera, e probabilmente i miei passi sulla ghiaia dei binari avevano svegliato il cane. Cominciò ad abbaiare. Il suo abbaiare svegliò un cane più vicino, che prese a latrare in modo forte e acuto. Non sono mai riuscito a superare la paura di essere morso da un cane, che risale alla mia infanzia; un cane grande che abbaia mi pietrifica. Nei miei incubi peggiori ci sono cani lupo irlandesi con le fauci schiumanti. Di solito i cani aggressivi appartengono ad anziani, a donne attraenti, a omjni brutti, e a coppie senza figli. Non le fa niente, dicono queste persone, godendo del mio terrore, e io vorrei rispondere, Può darsi, ma forse gli farò qualcosa io. In Sud America, si sa, molti cani hanno la rabbia. Non sono i cani randagi rannicchiati per la paura che ho visto a Ceylon e in Birmania, ma creature più floride, con zanne acuminate, simili a lupi, che vengono incitate dai nativi. Nei villaggi indi del Perù e della Bolivia c'erano sempre cani, che sembravano molto più vigili degli indios stessi. Quegli stupidi animali si mettevano a rincorrere il treno. Avevo paura di prendere la rabbia. «La cura è peggiore della malattia.» Non era una paura irrazionale, avevo letto avvisi sul pericolo costituito dai cani impazziti.
Un cane, più piccolo di quel che il suo verso faceva pensare - era grande più o meno come una borsa - s'infilò fra i rovi e corse verso i bi nari. Si acquattava e ringhiava, chiamando l'altro. Mi misi le mani in la sca e cominciai a camminare all'indietro. Diedi un'occhiata alle mie spalle, verso la stazione illuminata - ero stato stupido ad allontanarmi così. Ora i cani erano tutti e due sui binari e si avvicinavano, ma con ci i cospezione; si spingevano in avanti, abbaiavano forte e si tenevano bas si. Guardai se c'era un bastone per picchiarli (se li avessi colpiti sa ivi ) bero stati presi da una furia omicida o sarebbero scappati via?), ma quc sto era il deserto. A parte qualche pioppo alla stazione, non c'era un al bero per centinaia di miglia. Avrei voluto correre, ma sapevo che lo avrebbero inteso come segno di codardia, e si sarebbero avventati su di me. Continuai a camminare all'indietro, tenendoli d'occhio e teme-min li troppo per poterli odiare. Quando fui più vicino alla stazione, i piop pi mi diedero speranza - perlomeno potevo arrampicarmici su, o mrl termi in salvo. C'era anche la luce, e i cani ne sembravano preoccupili i, Si tennero all'ombra, saettando fra i vagoni, e quando videro clic ito hi salvo sulla banchina presero a rincorrersi a vicenda. Erano piccoli, sin pidi, patetici e zoppi; dalla mia posizione sicura li odiai.
Il capostazione aveva sentito il trambusto. Disse: «Non vada troppo lontano. Ci sono molti cani in giro».
Trascinai la valigia verso una panchina di legno. Avevo eliminato tutti i libri meno Boswell, che ora cominciai a rileggere. Avevo le mani fredde. Misi via il libro, indossai un altro maglione, e mi sdraiai sulla panca con le mani in tasca, sotto il cartello 17 treno ti è amico. Fissai la lampadina e ringraziai il ciclo per non essere stato morso da un cane rabbioso.
Che fosse razionale o no, ne avevo paura. Ci sono parecchie soddisfazioni a viaggiare da soli, ma le paure sono altrettante. La peggiore è la più costante: è la paura di morire. È impossibile passare mesi a viaggiare da solo, arrivare in Patagonia e non sentirsi come uno che ha fatto qualcosa di molto sciocco. Nelle ore fredde che precedono l'alba, in un posto tanto desolato, tutta l'idea sembra sconsiderata, un rischio inutile, completamente senza senso. Ero arrivato da solo, avevo quasi raggiunto la mia destinazione, ma che significato aveva. Avevo voluto passare un bel periodo, non avevo niente da dimostrare. Eppure ogni giorno provo quella paura. Passare davanti a un incidente d'auto, leggere di un treno deragliato, vedere un carro funebre o un cimitero; star seduto in fondo a una corriera che devia bruscamente, o notare un'uscita di sicurezza serrata (nella maggior parte degli alberghi in cui dormivo, le uscite di sicurezza venivano chiuse con il lucchetto, di notte, per evitare che entrassero ladri); scribacchiare una cartolina e accorgermi dell'ambiguità della mia frase Questo è il mio ultimo viaggio - tutte queste situazioni facevano risuonare una solenne campana a morto in qualche angolo del cervello.
Avevo lasciato un luogo sicuro e avevo viaggiato fino ad arrivare a uno pericoloso. Il rischio era la morte, che sembrava ancor più imminente proprio perché, fino ad allora, non mi era successo niente di brutto. Viaggiare da quelle parti, in quel modo, pareva andare alla ricerca di guai. Frane, aerei precipitati, cibi avvelenati, sommosse, scoppi, squali, colera, inondazioni, cani idrofobi; tutti eventi quotidiani in questa parte del mondo, per evitarli ci voleva una vita magica. Sdraiato lì sulla panchina, non mi congratulai con me stesso perché ero arrivato così lontano, a una passo dalla mia destinazione. Piuttosto, capivo la gente che aveva ridacchiato quando avevo raccontato dov'ero diretto. Avevano ragione a prendermi in giro; nel loro modo semplice avevano riconosciuto la futilità dell'idea. Nella giungla del Costa Rica, il signor Thornberry aveva detto: «Io so cosa voglio vedere, scimmie e pappagalli! Dove sono?» In Patagonia c'erano i guanachi («I guanachi ti sputano addosso!»), ma, francamente, valeva la pena rischiare la vita per vederne uno? O, per dirlo in un altro modo, valeva la pena di passare anche solo una notte, semi assiderato, su una panchina di legno di una stazione della Patagonia per sentire il trillo del celebre «uccello flauto»? Allora mi sembrò di no. Più tardi mi parve una storia così divertente che dimenticai la mia paura. Ma avevo fortuna. Durante quel viaggio mi era capitato spesso di guardare fuori dal finestrino di un treno e pensare: Che posto tremendo per morirci.
Mi preoccupava anche l'idea di perdere il passaporto o il biglietto di ritorno, o di essere derubato di tutti i soldi; di prendere l'epatite e dover passare due mesi nell'ospedale di una città spaventosa come Guaya-quil o Villazón. Erano paure che si basavano su informazioni. «Rischia-mo la vita tutti i giorni, anche solo attraversando la strada», dicono persone benintenzionate, per rassicurarci. Ma nelle Ande e nei paesi primitivi si corrono rischi maggiori, e chi pensa il contrario è uno stupido.
Eppure ero contento, su quella panchina di Jacobacci, di essermi la sciato tutti gli altri alle spalle. Sebbene questa fosse una città con una via principale, una stazione ferroviaria, gente, cani e luci elettriche, era co sì vicina alla fine della terra da darmi la sensazione di essere un espio ratore solitario in una terra sconosciuta. Quell'illusione (che rimani1 un'illusione anche al Polo sud e alle sorgenti del Nilo) era una soddi sfazione sufficiente a spingermi oltre.
Mi appisolai, ma mi risvegliai per il freddo. Cercai di tenermi svc1 glio e di riscaldarmi. Feci altre tre passeggiate, stando alla larga dai ai ni. Si sentiva il canto di un gallo, ma l'alba non si faceva vedere, e il solo rumore era quello del vento, che premeva contro la stazione.
Ero arrivato a Ingeniero Jacobacci nell'oscurità, ed era ancora scuro quando salii sull'altro treno. Il capostazione mi diede dell'aliro le e mi disse che potevo salire in carrozza. Era effettivamente molto pimj« la, ne ero stato avvisato, e piena di polvere entrata dai finestrini. Mn perlomeno avevo un posto a sedere. Alle cinque cominciarono a formurtl gruppi di persone. La cosa incredibile era che, a quell'ora, cVnmo |>d« renti e amici venuti a salutarli. Avevo notato quest'usanza in iniln hi Mo livia e l'Argentina, questi commiati con una gran quantità di I un i, ni ibracci e mani agitate in segno d'addio; nelle stazioni più grandi c'erano uomini che piangevano al momento della separazione dalle mogli e dai figli. Lo trovavo toccante, e in contrasto con la loro ridicola esaltazione della propria mascolinità.
Si senti un fischio, a vapore, come un piffero acuto. La campanella suonò. Gli amici dei passeggeri balzarono giù dal treno, altri passeggeri salirono; poco prima delle sei ce ne andammo.
La luna splendeva nel ciclo blu. Non c'era il sole, e la terra intorno a Jacobacci era grigioazzurra e di un marrone pallido. Lasciammo la città prima che a oriente il ciclo cominciasse a rosseggiare. Ero contento di vedere le colline. Arrivando al buio, avevo immaginato che i dintorni fossero piatti come la zona che avevo visto al crepuscolo, quella landa desolata intorno al villaggio Ministero Ramos Mexia, dove ragaz-zini che vendevano uva saltellavano e cinguettavano nella polvere. Ma qui era diverso, e in ciclo non c'erano nuvole, quindi potevo sperare che la giornata sarebbe stata calda. Mangiai una mela e tirai fuori Boswell, e quando il sole spuntò mi addormentai tranquillamente.
Era un treno vecchio, e sebbene a questo punto avrei dovuto essere abituato alla stranezza delle ferrovie sudamericane, lo trovavo strano ugualmente. Dall'altra parte del corridoio era seduto un ragazzo, che mi guardava sbadigliare.
«Ha un nome questo treno?» chiesi. «Non capisco.»
«Il treno che ho preso per andare a Buenos Aires si chiama "Stella polare", e l'espresso per Bariloche ha il nome "Laghi del Sud". Quello per Mendoza si chiama "II Liberatore". Un nome così.»
Lui rise. «Questo treno è troppo insignificante per avere un nome. Il governo parla di eliminarlo.»
«Non è chiamato "La Freccia di Esquel", o qualcosa del genere?»
Scosse la testa.
«Oppure "Espresso della Patagonia?"»
«Vecchio Espresso della Patagonia», disse lui. «Ma i treni espressi dovrebbero essere molto veloci.»
«Non lo sono mai», dissi. «Sono stato su un espresso per Tucumàn che è arrivato con un giorno di ritardo. Ci ha messo sei ore per ripartire da una stazione, su a Humahuaca.»
«Inondazioni», disse il ragazzo. «Pioggia. Ma qui non piove, e il treno è lento lo stesso. Sono queste colline. Vede, ci giriamo sempre intorno.»
Era vero. I colli e le valli della Patagonia, che agli inizi avevo apprezzato perché rappresentavano un cambiamento, e perché erano innegabilmente belle, erano la causa della nostra lentezza. Su una linea retta questo viaggio sarebbe durato al massimo tre ore, ma il nostro arrivo a Esquel era previsto per le otto e mezza di sera; erano quasi quattordici ore. Più che colli veri e propri, i colli erano soufflé venuti male.
Era un treno a vapore, e per la prima volta da quando ero partito da casa avrei voluto avere una macchina fotografica, per farne una foto. Era un specie di matto samovar su ruote, con rattoppi di ferro sulla caldaia, tubi che perdevano nella parte inferiore, valvole sgocciolanti e gomiti di metallo che lanciavano getti di vapore ai lati. Andava a petrolio, quindi non gettava fumo nero, ma aveva problemi ai bronchi, ansimava e soffocava su per i pendii e sbuffava stranamente giù per le chine, quando pareva fuori controllo. Era a scartamento ridotto, e le piccole carrozze erano di legno. La prima classe non era più pulita della seconda, anche se aveva gli schienali più alti. Tutto il congegno scricchiolava, e quando andava veloce, il che succedeva raramente, faceva un tale fracasso di attacchi che cozzavano, finestre che sbatacchiavano e legno che gemeva che avevo l'impressione che stesse per scoppiare in mille pezzi, in un'esplosione di schegge che sarebbero cadute in uno dei burroni secchi lungo la ferrovia.
Il paesaggio aveva un aspetto preistorico, come gli sfondi dipinti dei musei che espongono scheletri di dinosauri: colli e gole, semplici e terribili; rovi e rocce; e tutto era levigato dal vento, come spogliato da una grande inondazione che avesse lavato via qualsiasi fisionomia palli colare. Il vento continuava a plasmare, impedendo agli alberi di cresci' re, spingendo la terra verso ovest, scoprendo altra roccia e perfino sni dicando i brutti cespugli.
Sul treno, la gente non guardava dal finestrino, eccetto alle sta/io ni, e anche lì solo per comprare uva o pane. Uno dei vantaggi del viag gio in treno è che sai dove ti trovi semplicemente guardando dal line strino. Non è necessario alcun cartello. Un colle, un fiume, un prato, tutti punti di riferimento che dicono fino a dove si è arrivati. Ma qiii-sto luogo non aveva punti di riferimento, o meglio era fatto tutto di punii di riferimento, indistinguibili uno dall'altro; migliala di colli e di lei i i di fiume asciutti, e miliardi di cespugli, tutti uguali. Dormicchiavo e mi risvegliavo, le ore passavano, lo scenario fuori dal finestrino non mutava. Le stazioni erano interscambiabili; un capannone, una piattaforma di cemento, uomini che fissavano, ragazzi con cesti, i cani, i furgoni ammaccati.
Guardai se c'erano dei guanachi, non avevo niente di meglio da fare. Non ce n'erano. Ma c'erano altri animali, uccelli di tutti i tipi, piccoli e cinguettanti, passeri e rondoni, falchi scuri e sparvieri. La Patagonia è senz'altro, perlomeno, un luogo protetto per gli uccelli. Qui si vedevano anche gufi e, più vicino alle Ande, grandi aquile; nell'estremo sud c'erano albatri di dimensioni enormi. La bruttezza del paesaggio permaneva senza interruzioni, e non sentivo alcun desiderio di muovermi dal treno. «Anche qui siamo grati al treno, come a un dio che ci conduce rapidamente attraverso queste ombre, con tanti pericoli nascosti», scrive Robert Louis Stevenson. «Con tanta agilità sfioriamo queste terre orribili; come il gabbiano, che vola sicuro attraverso l'uragano e oltre lo squalo.»
Il tipo dall'altro lato del corridoio stava dormendo. Guardai lui e gli altri passeggeri, e fui colpito dalla loro somiglianzà con me. Già agli inizi del viaggio avevo constatato che come viaggiatore ero poco credibile; non avevo né carte di credito né zaino, e non ero vestito così bene da poter essere un turista in una gita di dieci giorni fra rovine e cattedrali. Non ero neanche tanto sporco ed esausto da essere un vagabondo. La gente mi chiedeva che cosa facevo, e quando dicevo che ero un professore di geografia («Le vacanze di Pasqua!») mi guardavano dubbiosi. Accennavo a mia moglie e ai miei figli, ma perché io ero lì e loro da un'altra parte? Non avevo una risposta pronta. I turisti mi consideravano uno che ricadeva nel peccato, i giramondo parevano pensare che fossi un intruso, e i nativi non mi capivano. Era difficile convincere chiunque che non avevo motivi nascosti, non ero in fuga, non ero un truffatore professionale, un uomo con un piano. Il peggio era che avevo un piano, ma non desideravo rivelarlo. Se avessi detto a Thornberry, a Wolfgang, alla donna di Veracruz, o a Bert e Elvera Howie che ero uno scrittore, si sarebbero dati alla fuga oppure, per usare un'espressione di Bert Howie, «mi avrebbero riempito le orecchie di stronzate».
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Ho amato la tua storia, è piaciuto molto .. lotti desiderio di tornare in Patagonia, e più ora che mio marito è con buy viagra , sarà un piacere molto!
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