Uno spillo arrugginito lo fissava a un cartoncino. Sul cartoncino c’era scritto qualcosa con inchiostro nero sbiadito, ma io ero troppo piccolo, allora, per leggere.
«Cos’è questo?».
«Un pezzo di brontosauro».
La mamma conosceva i nomi di due animali preistorici: il brontosauro e il mammut.
Sapeva che questo non era un mammut. I mammut venivano dalla Siberia.
Scartate le isole del Pacifico, come posto più sicuro della Terra venne scelta la Patagonia.
Questo particolare brontosauro era vissuto in Patagonia, regione del Sud America all’estremo limite del mondo.
Leggi anche: Il deserto patagonico è il maggiore deserto dell'intero continente americano e il settimo per area nel mondo.Charley Milward era capitano di un mercantile colato a picco all’entrata dello Stretto di Magellano.
Nella mia immaginazione vedevo sangue e ghiaccio.
Appena vide il brontosauro spuntare dal ghiaccio capì subito cosa bisognava fare: lo tagliò a pezzi, salò i pezzi e li mise in barili che spedì via mare al Natural History Museum di Londra. Nella mia immaginazione vedevo sangue e ghiaccio, carne e sale, squadre di indios al lavoro e file di barili lungo la spiaggia: un lavoro gigantesco e del tutto inutile.
Infatti, durante il viaggio attraverso i tropici il brontosauro si decompose e a Londra arrivò soltanto un ammasso di roba putrefatta. Ecco perché al museo si possono vedere le ossa del brontosauro, ma non la pelle.
Per fortuna, però, il cugino Charley aveva mandato quel pezzetto di pelle alla nonna.
La nonna viveva in una casa di mattoni protetta da una siepe di alloro dalle foglie picchiettate di giallo, con alti camini, frontoni appuntiti e un giardino pieno di rose rosso-sangue. Dentro si sentiva odor di chiesa.
Non ricordo molto della mia nonna tranne la sua grande mole. Solevo arrampicarmi sul suo gran seno oppure osservarla di nascosto per vedere se riusciva ad alzarsi dalla sedia. Sopra di lei era appesa una serie di ritratti, grasse e burrose facce di ricchi olandesi annidate in bianchi collari.
Sulla mensola del camino c’erano due nanerottoli giapponesi.
Mai in vita mia ho tanto desiderato una cosa quanto quel pezzo di pelle. La nonna diceva che un giorno, forse, l’avrei avuto. E quando morì io dissi: «Ora lo posso avere, quel pezzo di brontosauro». Ma la mamma disse: «Oh, quella roba! Ho paura che l’abbiamo buttata via».
A scuola risero della storia del brontosauro. Il professore di scienze disse che mi ero confuso col mammut siberiano. Agli allievi raccontò di scienziati russi che avevano pranzato con mammut congelato e mi disse di non raccontare frottole.
Mi vergognai del mio peloso brontosauro, ma sapevo che non era un mammut.
Il mio interesse per la Patagonia sopravvisse alla perdita della pelle, perché la guerra fredda fece nascere in me la passione per la geografìa. Verso la fine degli Anni Quaranta il Cannibale del Cremlino distese un’ombra sulle nostre vite; poteva succedere di scambiare i suoi baffi per denti.
Ascoltavamo conferenze sui suoi piani di guerra.
In seguito leggemmo della bomba al cobalto, che era peggiore della bomba all’idrogeno e poteva spianare il nostro pianeta con una reazione a catena senza fine.
Sapevo come era il color cobalto perché l’avevo visto nella scatola di colori della mia prozia, vissuta a Capri al tempo di Maksim Gorkij dipingendo nudi di giovani capresi.
In seguito la sua arte si era fatta esclusivamente religiosa. Dipinse molti quadri di san Sebastiano, sempre su sfondo blu-cobalto, sempre lo stesso bel giovane, saldo sulle gambe malgrado le frecce che lo trapassavano da parte a parte.
Così immaginavo la bomba al cobalto come un denso cumulo di nuvole blu, sprigionanti lingue di fuoco ai margini. E vedevo me stesso, solo su un verde promontorio, scrutare all’orizzonte l’avanzata delle nuvole.
Eppure speravamo di sopravvivere al flagello.
Immaginavo una bassa casa di legno, col tetto di assicelle, incatramata per resistere agli uragani, con dentro ciocchi fiammeggianti e, allineati sulle pareti, i migliori libri: un posto dove vivere mentre il resto del mondo saltava per aria.
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