Ma in questo treno, il Vecchio Espresso della Patagonia, ero simile a tutti gli altri; poco rasato, discretamente presentabile, con una valigia ammaccata, un aspetto vagamente europeo, i baffi pendenti, le scarpe impermeabili consumate.Era un sollievo, finalmente ero anonimo. Ma che strano posto in cui essere anonimo. M'intonavo con il primo piano, ma che sfondo! Era stupefacente, appartenevo a quel treno.
Il ragazzo si svegliò.
«Quanto c'è per Norquinco?» chiese.
«Non lo so», dissi. «A me sembrano tutte uguali.»
L'uomo dietro di me disse: «Circa due ore».
Non indicò il finestrino, guardò l'orologio. Il paesaggio non era di nessun aiuto per stabilire dov'eravamo.
Il ragazzo si chiamava Renaldo. Il suo cognome era Davies, era gallese. Questa parte della Patagonia era piena di Jones, Williams, Powell e Pritchard, famiglie del Galles che erano migrate lungo l'altopiano, arrivando da Rawson, Trelew e da Puerto Madryn, con l'intenzione di fondare una nuova colonia gallese. E gente risoluta, indipendente e riservata, non i tipi canterini e sognatori a cui si associa il Galles, ma tutta un'altra specie, frequentatori di chiese, allevatori di pecore, tenacemente protestanti, con forti sentimenti per una patria che non hanno mai visto e per una lingua che parlano in pochi. (Un classico della letteratura gallese s'intitola Dringo'r Andes, «Salendo sulle Ande», scritto dalla gallese Eluned Morgan, che nacque nel golfo di Biscaglia durante la grande emigrazione). Renaldo voleva parlare in inglese, ma lo faceva in modo per me inintelligibile, così parlammo in spagnolo.«Ho imparato l'inglese in una nave mercantile», disse. «Non è un buon posto per impararlo.»
Era stato sulla nave per due anni, e adesso stava tornando a casa.
«Se sei stato su una nave», dissi, «devi essere stato a Boston.»
«No», disse. «Ma sono stato in tutta l'America. In tutto il conii nente.»
«New York?»
«No.»
«New Orleans?»
«No.» Ora era perplesso. «America, non gli Stati Uniti.»
«Sud America?»
«Giusto, tutta quanta. In tutta l'America», disse. «E in Asia: Sloga pore, Hong Kong; e Bombay. E in Africa: Durban, Città del ( iapo, l'ori Elizabeth. Sono stato dappertutto.»
La nave in cui si era imbarcato era peruviana, ma l'equipaggio era composto principalmente da cinesi e indiani - «gli altri indiani, diversi dai nostri. Mi piacevano, più o meno. Parlavano, giocavamo a carte. Ma i cinesi! Li odiavo! Ti guardano e non dicono niente. Se vogliono qualcosa», fece il gesto di afferrare, «lo acciuffano; acciuffano e basta.»
Gli chiesi che impressione aveva avuto del Sud Africa. La sua risposta mi sorprese.
Il Sud Africa è un cattivissimo posto», disse. «È molto bello, ma la società è crudele. Non ci crederai, ma dappertutto ci sono cartelli che dicono "Solo per bianchi." Taxi, autobus, negozi, "Solo per bianchi." I bianchi vanno da una parte, i neri dall'altra. Strano, no? E la maggior parte della gente è nera!» Lo raccontava più con stupore che con indignazione, ma aggiunse che non l'approvava.
Perché no? chiesi.
«Non va bene. "Solo per bianchi", "Solo per neri"», disse. «È un sistema stupido. Dimostra che hanno grossi problemi.»
Trovavo incoraggiante che un abitante della Patagonia privo di cultura potesse dimostrare tanto discernimento. Dissi. «La penso così anch'io.»
Disse: «Passerei più volentieri la mia vita a Barranquilla che a Durban. E Barranquilla è veramente orrenda».
«È vero», dissi. «Sono stato a Barranquilla, e l'ho detestata.»«Non è un letamaio? Un posto veramente brutto.»
«Quando sono stato lì c'erano le elezioni.»
«Hanno le elezioni? Bah», disse lui. «Lì non c'è niente del tutto!»
Pensando a Barranquilla ridacchiava. Guardai dietro di lui, le colline che sembravano dune, i cespugli bassi, il sole accecante, gli sbuffi di polvere lanciati in aria dal treno. Lontano c'era un condor che volava in cerchio; i condor non battono le ali. Il disgusto di quel ragazzo della Patagonia per Barranquilla era un'avversione per la lenta decomposizione, per la muffa e gli insetti. Qui non marciva niente. Un essere morto diventava velocemente una carcassa secca; si raggrinziva ed era presto solo ossa. Non c'era umidità, niente di stagnante. Era la pulizia del descT to, la rapida distruzione provocata dal sole e dall'aridità; era un tc'rriio rio selvaggio e disidratato, un fossile sul fianco del pianeta.
«Così hai visto il mondo», dissi. «Ma perché torni a casa.»
«Perché ho visto il mondo», disse. «Da nessuna parte è come qui. Troverò un lavoro, magari a costruire case o a riparare motori. A Norquinco o a Esquel.»
«Io sto andando a Esquel», dissi.
«Si fa prima prendendo la corriera da Bariloche.»
«Volevo prendere l'Espresso della Patagonia», dissi.
«Questo vecchio treno!»
Quando arrivammo a Norquinco e lui tirò la valigia verso la porta, dissi: «La regina d'Inghilterra - sai chi voglio dire?»
«La regina Elisabetta? Che cosa c'è?»
«Ha una fattoria proprio fuori Esquel. Molto bella, con una quantità di bestiame.»
Trascorsi quel pomeriggio sul treno come avevo trascorso pomeriggi su treni per tutto il percorso attraverso le Americhe. Ricordai persone che erano state crudeli con me; provai osservazioni taglienti che avrei dovuto pronunciare; revocai situazioni imbarazzanti della mia vita; rivissi mentalmente piccole vittorie e grandi sconfitte; immaginai d'essere sposato con qualcun'altra, di avere figli e di divorziare; mi elessi presidente di una repubblica delle banane, e cercai di tener testa a una chiassosa opposizione; studiai medicina, mi misi a praticare ed eseguii operazioni complesse; raccontai una lunga storia umoristica davanti a un grande pubblico, ma alla fine il premio andò a qualcun altro. Morii, e la gente parlò di me a voce molto alta. Fu un tipico pomeriggio di viaggio.
Avevo scelto come punto di riferimento sulla cartina il villaggio di Leleque, che però era ancora a ore di distanza. Il treno arrancava, raramente correva in linea retta, e ogni tanto si fermava - un urlo, la campanella, il fischio, l'abbaiare, e ripartivamo. Mi rendevo conto che il mio viaggio stava finendo, ma non ero triste quando mi veniva in mente che, dopo poche ore, forse al calare della notte, il treno mi avrebbe lasciato alla mia destinazione, e non ci sarebbe stato più nulla. Il pensiero correva alla stazione di Esquel, all'aereo per Buenos Aires, all'arrivo a casa. Sì, all'aeroporto avrei preso un taxi, al diavolo i soldi. La mia di-si i nazione era vicina, ero impaziente.Ma il paesaggio insegnava pazienza, cautela, tenacia. Per vederlo bisognava studiarlo, un'occhiata non diceva niente. La locomotiva va avanzando a fatica sulle strette rotaie, lungo il deserto; pareva si-m pre sul punto di tirare le cuoia, esplodendo in una pioggia di metallo e vapore, oppure grippandosi in una sequenza di singulti e bloccandosi lungo un pendio, per poi scivolare indietro nell'avvallamento e non muoversi più. Sembrava un miracolo che una locomotiva vecchia come questa potesse andare avanti, e cominciai a interpretare i suoi respiri ansanti come segni di energia, e non di debolezza.
Ma la locomotiva e il paesaggio non potevano tener desta l'attenzione a lungo. Mi concentrai su Boswell, mangiai uva e sonnecchiai. Il sole era calato; a ovest le colline erano più alte, e il sole scivolava verso di loro. Il vento era più freddo. Ormai era evidente che non saremmo arrivati a Esquel prima del buio. Quando l'oscurità scese, lo fece nel modo improvviso della Patagonia, lesta come una tenda tirata giù, e riempì la notte di gelo. Nel silenzio del deserto si sentiva il suono del vento, e il treno che si affannava. Il treno fermava alle stazioni più piccole, prima di Esquel; la locomotiva tremava nel buio, e più in là il ciclo era un immenso setaccio di stelle blu.
Erano passate le otto quando vidi le luci. Guardai se ce n'erano altre, ma non ne vidi. Questi posti non erano niente, pensai, finché non ci si era in cima. Non sapevo che eravamo in cima a Esquel. Mi ero aspettato di più - un'oasi, forse pioppi più alti, la vista di qualche bar accogliente, un ristorante affollato, una chiesa illuminata a giorno, qualcosa che desse significato al mio arrivo. Oppure qualcosa di meno, come una delle stazioni minuscole lungo la ferrovia; come Jacobacci, qualche capanna, dei cani, una campanella. Il treno si svuotò rapidamente.
Trovai un uomo con un berretto dall'aria ufficiale, e un distintivo delle ferrovie appuntato alla camicia. C'era un albergo lì vicino?
«Esquel è piena di alberghi», rispose. «Alcuni sono anche buoni.»
Gli chiesi di dirmene uno, e lui lo fece. Mi ci infilai subito e feci un bagno, freddo, non per mia scelta. Poi andai al ristorante.
«Che cosa beve? Vino rosso?»
«Sì», dissi.
«E che cosa mangia? Una bistecca?»
«Sì.»
Come sempre. Ma qui l'atmosfera era diversa, come in un saloon del west, con la gente che veniva in città per il fine settimana, le facce parevano di cuoio; si tenevano addosso le giacche di pelle anche nel ristorante, un uomo stava dritto sulla sua sedia, con un libro in mano. I camerieri correvano avanti e indietro con i loro vassoi. Vidi un orologio a muro, un calendario, la fotografia di quella che probabilmente era una squadra di calcio locale, l'immagine di un santo.
Avevo pensato di fare una passeggiata, di cercare un bar. I muscoli mi facevano male per il viaggio, e volevo sgranchirmi. Ma stando lì seduto mi appisolai. Mi risvegliai con uno scossone e chiesi il conto.
A letto, la sabbia e la ghiaia che erano fra le pagine di Boswell mi caddero sul petto. Lessi una frase, guardai la sabbia che scivolava, e nel gesto di toglierla mi addormentai.L'idea iniziale era di arrivare a Esquel il giorno prima di Pasqua, e di svegliarmi la domenica per guardare l'alba. Ma la Pasqua era già passata. Questa non era una data particolare, e io non mi svegliai all'ora che avevo in mente. Mi alzai e uscii. Era una giornata assolata e ventosa, come in tutti i giorni dell'anno, in quella parte della Patagonia.
Camminai fino alla stazione. La locomotiva che mi aveva portato a Esquel aveva un'aria derelitta, sul binario di raccordo, come se non dovesse mettersi in moto mai più. Ma aveva forza per altri cent'anni, ne ero certo. Camminai oltre, passando davanti alle case di un piano e alle capanne di una stanza, fino ad arrivare dove la strada diventava un sentiero polveroso. C'era un pendio roccioso, qualche pecora, il resto erano cespugli ed erbacce. Guardando attentamente si vedeva che i cespugli avevano piccoli fiori rosa e gialli. Il vento li scuoteva. Mi avvicinai. Tremavano, ma erano graziosi. Dietro di me c'era un gran deserto.
Era questo il paradosso della Patagonia; star qui spingeva a diventare un miniaturista, oppure a interessarsi a enormi spazi vuoti. Non c'era un campo di studio intermedio; o l'enormità dello spazio deserto o la vista di un fiore piccolissimo. Si doveva scegliere fra il minuscolo e l'immenso.Il paradosso mi divertiva. L'arrivo non aveva importanza, era il viaggio che contava. Avrei seguito il consiglio di Johnson. Agli inizi della sua carriera aveva tradotto il libro di un viaggiatore portoghese in Abissinia. Nella sua prefazione, Johnson scriveva: «Non ha cercato di divertire i lettori con assurdità immaginarie, o fantasticherie incredibili; che sia vero o no, tutto quel che riferisce è perlomeno verosimile, e chi non racconta nulla che ecceda i confini della verosimiglianza ha il diritto di pre tendere che chi non lo può contraddire gli creda».
Le pecore mi videro. Le più giovani si misero a scalciare. Quando guardai di nuovo nella loro dirczione se ne erano andate, e io ero una formica in un formicaio sconosciuto. In quello spazio era impossibile accertare le dimensioni delle cose. Non c'erano sentieri fra i cespugli, ma potevo guardarli dall'alto, guardare l'oceano di spine che in distanza sembrava così mite, da vicino così crudele, e in primo piano come mazzi di fiori malriusciti. Era tutto perfettamente calmo, e senza odori.
Sapevo di non essere da nessuna parte, ma la cosa più sorprendente era che dopo tutto quel tempo ero ancora nel mondo, in un punto in fondo alla carta geografica. Il paesaggio era scarno, ma dovevo ammettere che aveva lineamenti decifrabili, e che io c'ero dentro. Il suo aspetto era una scoperta. Pensai che anche «da nessuna parte» era un luogo.
In basso la valle diventava profonda, di una roccia grigia che portava le strisce delle ere e le spaccature delle inondazioni. Più in là c'era una sequenza di colli, con le fenditure e i tagli fatti dal vento, che ora cantava nei cespugli. I cespugli si scuotevano al canto, poi s'irrigidivano silenziosi. Il ciclo era di un azzurro terso. Una nuvola soffice, bianca come un fiore di cotogno, portava un po' di ombra dalla città, o dal Polo sud. La vidi avvicinarsi. Fluttuò sopra i cespugli e mi passò sulla testa; un attimo di freddo e poi andò sgualcendosi verso est. Qui non c'erano voci, c'era quello che vedevo. Sebbene più avanti ci fossero montagne, ghiacciai, albatri e indios, qui non c'era niente di cui parlare, nulla che mi trattenesse ancora. Solo il paradosso della Patagonia: lo spazio immenso e i fiori minuscoli del cespuglio simile all'artemisia. Il nulla in sé, che per qualche intrepido viaggiatore segna l'inizio, per me era una conclusione. Ero arrivato in Patagonia, e mi venne da ridere ricordando che ero partito da Boston, con il treno sotterraneo che la gente prendeva per andare a lavorare.
Paul Theroux
L'ultimo treno della Patagonia
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